Su alcuni “amori” irrinunciabili

Su alcuni “amori” irrinunciabili

Francesco Gazzillo & Sveva Angrisani

Il fenomeno clinico su cui vorremmo attirare la vostra attenzione, e che vorremmo approfondire con il tempo, potrebbe essere descritto così: ci sono alcune persone che frappongono tra sé e l’oggetto di cui si innamorano quella che vorremmo descrivere come una fantasia romantica relativa a sé, all’oggetto e alla relazione che deve esserci tra sé e l’oggetto. Questa fantasia si configura come uno o più scenari che permettono alla persona di vivere proprio le esperienze sentimentali che cerca per appagare i suoi bisogni amorosi e disconfermare le sue credenze patogene. Ma fino a qui non ci sono grandi differenze rispetto a ciò che a nostro parere accade in tutti gli innamoramenti. Ciò che realmente, a nostro parere, è peculiare di queste situazioni è il modo in cui si articola la relazione tra queste persone, i loro oggetti e la fantasia. In questi casi, infatti, la fantasia è immodificabile, e l’oggetto d’amore deve recitare il ruolo che essa gli attribuisce nel modo più preciso possibile.
Se si presentano degli scarti tra la fantasia e il modo di essere o di comportarsi dell’oggetto, allora i pazienti che stiamo descrivendo ricorrono ad alcune strategie tese a colmarli:

cercano di costringere l’oggetto ad adeguarsi alle loro aspettative per mezzo di pressioni più o meno dirette, seduttive ma più spesso aggressive, a volte più attive a volte più passive;
negano alcune delle caratteristiche dell’oggetto o della realtà che li rendono diversi da quanto previsto dalla fantasia;
manifestano crisi disforiche di rabbia e depressione.

Le opzioni che invece sembrano inaccessibili a queste persone sono:

l’accettazione dell’altro nel suo modo reale di essere;
la modifica della fantasia;
la comunicazione pacata e mentalizzata dei propri desideri e la loro negoziazione relazionale;
la rinuncia all’oggetto o alla fantasia e il processo di elaborazione del lutto a tal fine necessario.

Spesso i pazienti in questione “scelgono” poi oggetti che hanno due caratteristiche:

non sono del tutto disponibili, o perché già coinvolti in altri rapporti o perché caratterizzati da personalità che li rendono piuttosto inadatti a dare realmente amore, ad esempio a causa di forti tratti narcisistici o relazioni passate irrisolte;
alcune delle caratteristiche degli oggetti scelti li rendono realmente adeguati a incarnare l’oggetto fantastico della fantasia della persona

Detto in altro modo, è come se fosse centrale nel processo di innamoramento un pensiero del tipo: se solo riuscissi a indurre questo oggetto ad amarmi e a essere come l’ho in mente, allora avrei risolto tutti i miei problemi sentimentali – laddove “amarmi” significa che l’oggetto si adegui del tutto alla fantasia. L’oggetto o la relazione sono “quasi perfetti” e il soggetto deve renderli “del tutto perfetti” così che si adeguino alla fantasia. Nella fantasia è dunque insita l’idea di migliorare l’oggetto. Inoltre, il pezzo o la “sfumatura” che manca all’altro o alla relazione è, agli occhi di queste persone, oggettivamente necessario e il fatto che il loro partner debba cambiare secondo i loro desiderata è oggettivamente giusto. Le pressioni che il soggetto esercita (o il fatto che non si rassegni alla riottosità dell’oggetto) sono doverose e inevitabili.
Questa dimensione di sfida, assieme alle caratteristiche che la persona attribuisce all’oggetto e allo scenario, rivelano in tutti i casi da noi trattati che le credenze patogene nucleari di queste persone ruotano attorno a temi di odio di sé e senso di colpa del sopravvissuto. L’amore dell’oggetto ha dunque la funzione di rassicurare il soggetto rispetto al proprio valore, e la relazione con l’oggetto quella di rendere accessibili al soggetto esperienze e capacità che, in virtù tanto dell’odio di sé quanto del senso di colpa del sopravvissuto, il soggetto reputa di non poter fare o sviluppare in modo autonomo. Per dirla con la teoria psicoanalitica classica, l’oggetto/fantasia è il depositario di parti idealizzate di sé scisse e identificate proiettivamente in lui, e in quanto tale è irrinunciabile, pena la perdita di parti del Sé.
Da un altro punto di vista possiamo evidenziare che la fantasia/oggetto sembra configurarsi come un copione scritto sulla base di esperienze traumatiche del passato (relative alla relazione della persona con uno o entrambi i caregiver e/o a quella dei caregiver tra loro), un copione che però è stato modificato per fornire a esso un finale migliore, un finale che sana le ferite antiche.
Da questo punto di vista, anche l’identificazione della persona reale con il personaggio del copione, e l’irrinunciabilità e immodificabilità del tutto (almeno all’interno del soggetto), sembrano dovute al fatto che modificare qualcosa della fantasia o rinunciare a essa significa, per l’innamorato, avere la prova definitiva che non può essere amato e che a lui la felicità e la realizzazione non sono concesse.
In molti casi queste persone affidano alla relazione sentimentale fantasticata il compito di risanare e colmare mancanze e storture patite nella propria vita o nel proprio modo di essere, o ancora dei disequilibri, esito di compromessi, insoddisfacenti nella realtà, con le proprie credenze patogene. L’altro fantasticato, incarnato nella e confuso con la persona reale, diventa il complemento indispensabile per trovare sollievo ed equilibrio, come se gli si delegassero capacità e funzioni psichiche che, in virtù delle proprie credenze patogene, il soggetto non riesce a riconoscersi o porre in essere nella sua vita. Vedere l’altro per quello che è o anche solo comprendere il senso e le ragioni per cui si ha bisogno di vederlo e sentirlo in un certo modo, è impossibile perché equivale a una messa in discussione di sé, della propria ragionevolezza, della legittimità dei propri bisogni.
In sintesi, quelle che stiamo cercando di descrivere sono relazioni caratterizzata dalla scelta di un oggetto non del tutto disponibile/adeguato che viene identificato in modo assoluto con il personaggio di una fantasia che serve a disconfermare credenze patogene da odio di sé e senso di colpa del sopravvissuto.
Ma forse le caratteristiche più distintive di questo fenomeno sono due:

l’ostinazione con cui l’oggetto reale è identificato con quello fantastico e poi “costretto” a aderire anche nella realtà esterna a tale fantasia;
l’immodificabilità e irrinunciabilità di tale fantasia/oggetto.

Resta comunque aperto l’interrogativo relativo alle origini e al senso di tali peculiarità. Fino a ora non abbiamo trovato risposte che consideriamo davvero soddisfacenti a esso. Di certo tali peculiarità hanno a che fare con la forza di odio di sé e senso di colpa del sopravvissuto implicati, e quasi sempre questo fenomeno si rivela profondamente autopunitivo perché quella che nasce come una ricerca di esperienze emotive correttive e un tentativo di padroneggiare traumi antichi si trasforma in una ritraumatizzazione e in una conferma delle proprie credenze patogene. In alcuni casi, questa testardaggine nel voler trasformare un altro nel proprio oggetto fantastico sembra riproporre un’esperienza subita nell’infanzia da queste persone, cioè quella di una relazione in cui uno dei caregiver cercava di trasformare il figlio, e futuro paziente, in un oggetto esistente nella sua mente, senza riuscire a vederlo e amarlo nella sua specificità. Ma questo elemento non lo abbiamo nella storia di tutti i pazienti in questione.
Un’ultima notazione: almeno nei momenti più “difficili” della terapia, questi pazienti tendono a proporre al clinico lo stesso trattamento che riservano all’oggetto; detto in altro modo, sembrano poter accettare solo un clinico che si rapporti a loro, dica e faccia ciò che a loro sembra congruente con i loro bisogni, e se il clinico fa o dice qualcosa di diverso, cercano di indurlo con reazioni rabbiose e sofferenti, con minacce o interruzioni, a fare ciò che loro vorrebbero, con la certezza assoluta che quello è ciò che è giusto e a loro utile. Di conseguenza, non è raro che queste terapie diventino lunghe e con risultati limitati (se il clinico fa ciò che loro chiedono) o diventino fonte di frustrazione e rabbia o si interrompano se il clinico non lo fa. Senza che questo diventi fonte di apprendimento o cambiamento nel paziente.
Proveremo a mostrare questo fenomeno attraverso il racconto di un caso clinico in cui abbiamo condensato, per motivi di privacy, caratteristiche e dinamiche di persone diverse.

Nadia, un’avvocata penalista di successo, è una donna autonoma, bella intelligente. Ha una vita molto impegnativa, lavora tanto e fino a tardi. Ama il suo lavoro, ma allo stesso tempo è affaticata dalle complessità che quotidianamente deve gestire e dalle responsabilità che si assume. Arriva in terapia per rispondere a un conflitto per lei irrisolvibile: sente di dover scegliere tra tacere su ciò che pensa e prova davvero per avere qualcuno accanto, con un livello di insoddisfazione e rabbia altissimo che la logora, o dire davvero ciò che pensa e vuole, restando poi però per questo sola. Una scelta chiaramente “impossibile”.
Nadia è cresciuta con dei genitori perennemente in guerra tra loro che hanno alternato momenti di separazione a momenti di vita insieme finché entrambi sono morti in un incidente stradale quando lei era all’università.
Nadia descrive la madre come un’attrice di teatro famosa, molto bella, esibizionista e direttiva. In famiglia tutto doveva funzionare come aveva stabilito e sapeva solo lei. I figli stessi dovevano agire e mostrarsi agli altri nel modo in cui lei voleva per non farle fare brutta figura ed essere apprezzati dagli altri.
Il padre era un insegnante molto noto nella sua comunità, ma freddo e distanziante. La paziente racconta di come lui reagisse ritirandosi ogni volta che Nadia provava a manifestargli bisogni o scontentezze o se chiedeva, soprattutto da piccola, di essere aiutata a fare le cose.
L’irrisolvibilità del conflitto che portava Nadia in terapia è emersa al termine di una prima fase di lavoro in cui, dopo aver lasciato il compagno storico, aveva chiesto di essere aiutata a sentire che esprimere i propri bisogni e le proprie ragioni non equivaleva ad essere egoista o cattiva (senso di colpa da burdening). Allo stesso tempo era stato possibile esplorare come i normali disallineamenti che si possono creare nei rapporti con gli altri quando si pensa o si vogliono cose diverse o, soprattutto, quando gli altri non sono perfettamente sintonizzati con i propri bisogni e intenzioni, fossero vissuti come forme di rifiuto o di mancanza di interesse per sé stessa (odio di sé e senso di colpa da separazione). Questo lavoro le aveva permesso da una parte di essere più autentica e sentirsi più a suo agio nelle relazioni, dall’altra di vivere in modo meno catastrofico le imperfezioni e le differenze di vedute.
Questi piccoli cambiamenti però non si erano accompagnati a un vero sollievo. Nadia era meno arrabbiata e più capace di non mettere del tutto in discussione l’affetto o l’interesse dell’altro verso di lei, aveva ripreso a vedere gli amici e ad organizzare cose con loro, ma le restava una grande tristezza. Il mondo le sembrava vuoto, le situazioni prive di piacere, con gli amici stava bene ma nessuna esperienza era mai completamente coinvolgente dal punto di vista emotivo, e mancava sempre qualcosa. In parallelo, cresceva la sua voglia di avere una storia e il senso di tristezza, fallimento e solitudine si aggregava attorno a quest’ idea: si faceva sempre più spazio il pensiero che se avesse avuto un fidanzato, tutto sarebbe stato diverso, che il motivo di quella tristezza e insoddisfazione era la mancanza di un amore, “la mancanza di una persona con cui condividere progetti, interessi, con cui poter anche condividere la fatica di una giornata, le preoccupazioni o le incombenze del quotidiano. È tutto più facile quando hai qualcuno a cui vuoi bene e sai che dopo una giornata di merda c’è lui che puoi ritrovare”.
In parte questa donna diceva cose che in qualche modo sono vere per tutti. È vero che si è più felici quando si è innamorati ed è vero che una relazione appagante e stabile migliora la qualità della vita. Eppure, per il modo in cui lei ne parlava, sembrava che nella sua fantasia il rapporto di coppia era una sorta di isola felice, una condizione che le avrebbe permesso finalmente di provare una felicità e una soddisfazione che da sola, nella sua vita cosi come era, non raggiungeva mai. Ma perché Nadia non riusciva a sentirsi cosi?
Il suo vissuto era che alle persone che la circondavano, a cui pure voleva bene, mancassero di quella sensibilità e accortezza di cui aveva assolutamente bisogno. Dimenticavano sempre il lavoro che faceva, dimenticavano o semplicemente non condividevano la sua passione per la movida o per l’arrampicata, le proponevano sempre situazioni ricreative poco stimolanti o poco in linea con i suoi interessi ecc. Nadia aveva imparato a lavorare su stessa per non rimanerci troppo male e per proporre di più ciò che le piaceva, ma restava la delusione per il fatto che questi altri non erano quello che avrebbe voluto; e restava sempre un fondo di fatica e infelicità. E Nadia immaginava che un compagno con cui condividere interessi e passioni, e con la sua stessa sensibilità, avrebbe potuto dissolvere questa tristezza. Una tesi spesso sostenuta da racconti di situazioni e frammenti delle sue storie passate in cui per qualche tempo in effetti era stato proprio cosi. Allo stesso tempo, Nadia attribuiva a una relazione la possibilità di aiutarla a trovare quella leggerezza e quel sostegno che da donna sola, con un lavoro estremamente impegnativo dal punto di vista emotivo e materiale, non riusciva a sperimentare.
È a questo punto della terapia che conosce Luca, un uomo dalla sensibilità straordinaria, estremamente caldo, dolce e accudente e anche molto docile e paziente. Nadia è felice, sente di aver trovato finalmente una persona in grado amarla e capirla come desidera, capace, anche durante i diverbi, di vedere di cosa lei ha bisogno e a disinnescare così le sue reazioni di rabbia e scontentezza; un uomo in grado di coniugare passione e tenerezza. Quel velo di tristezza che avvolgeva le sue giornate sparisce e per un po’ e Nadia sembra appagata e felice.
A poco a poco, però, la felicità inizia a offuscarsi. Luca si rivela una persona accomodante e docile non solo verso Nadia, ma in tutte le situazioni controverse o potenzialmente problematiche. Diviene piano piano chiaro che gli eventi avversi che hanno connotato la vita di Luca, e che tutt’ora gravano su di lui (ex moglie litigiosa e vendicativa, truffa da parte dell’ex socio, dissesti economici e pendenze legali mai risolte), non sono state solo l’esito di eventi avversi, ma anche conseguenze di un modo di essere estremamente bonario, fiducioso verso il prossimo e poco assertivo.
Dopo una prima fase di luna di miele, Nadia si trova così a dover fare i conti con la realtà di una persona “passiva, mai in grado di riconoscere e occuparsi attivamente delle proprie responsabilità”. Inizia perciò una sorta di pungolamento, prima interlocutorio e bonario, via via sempre più pressante e accusatorio, affinché Luca cambi avvocato per risolvere definitivamente le pendenze legali e rivedere gli accordi con l’ex moglie; si iscriva in palestra; cambi lavoro o comunque si faccia valere con i colleghi rispetto a turni e orari o comunque chieda un aumento; si disintossichi dall’utilizzo eccessivo di smartphone e dispositivi; non procrastini impegni e cose da risolvere ecc. “Questo suo modo di fare rinunciatario è inaccettabile. Ma come si fa a vivere facendosi mettere i piedi in testa da colleghi sfaticati, a non avere la motivazione a reinventarsi, trovare un altro lavoro, rimboccarsi le maniche nella vita?!” Le cose che Nadia rimproverava a Luca non erano in effetti assurde, ma la cosa che più colpiva ascoltandola era che:

era abbastanza evidente che questi fossero tutti aspetti intrinseci del modo di funzionare di Luca, e che non ci fosse una domanda di cambiamento su di essi o una richiesta di aiuto da parte dell’uomo;
anche i piccoli cambiamenti e le aperture che Luca aveva fatto per accontentare Nadia erano stati accolti con tiepida contentezza. Luca doveva diventare come Nadia voleva;
Lei non riusciva mai davvero a mettersi nei panni di Luca e di come questi suoi continui rimproveri, richieste o paternali lo facessero sentire.

Nadia non riusciva minimamente a porsi il problema di come si sentisse Luca perché era assolutamente convinta dell’obiettività delle sue ragioni. Chiunque si sarebbe sentito infelice con uomo siffatto e questi suoi modi di fare e di essere erano oggettivamente sbagliati, che erano “errori”, “difetti”. Era giusto che lei tentasse di correggerli e di aiutarlo a migliorarsi. Lui non voleva farlo per non affrontare i suoi demoni, perché aveva un’autostima troppo fragile o, se si offendeva troppo a un certo punto, era perché non tollerava le critiche, era estremamente permaloso.
Quando (con una serie di accortezze!) provavo ad esplorare come questi modi di essere di Luca la facessero sentire, quale fosse l’aspetto per lei più insopportabile della sua condotta o provavo a chiederle cosa questo le facesse venire in mente, Nadia mi diceva che non riusciva a stimare e “amare” una persona cosi inetta. Provava disprezzo e rabbia. La passività di Luca, le sue incapacità e le conseguenze in cui concretamente queste si traducevano nella vita (tono dell’umore basso di lui, turni di lavoro scomodi e logoranti, penuria di risorse economiche ecc..) diventavano una limitazione per lei, una fonte di infelicità. Quindi, non solo si sentiva tradita rispetto alla sua aspettativa di avere un compagno con cui condividere gioie e piaceri, ma anche rispetto all’idea di avere qualcuno che la sostenesse, che l’aiutasse a gestire o anche solo a sorridere della pesantezza del quotidiano. “A fine giornata non c’è ad aspettarmi qualcuno che mi porti un po’ di leggerezza, ma una persona vinta dalla vita, triste e che si lamenta! E io, dopo una giornata di problemi degli altri, morti ammazzati e casini mi devo sentire pure lui che si lamenta di inezie! Che non riesce a risolvere manco il problema di chiedere un cambio turno!”
In effetti, dal punto di vista pratico, Nadia era molto efficiente, ma dal punto di vista emotivo e di funzionamento complessivo ciò implicava dei disequilibri. Nadia viveva le avversità del quotidiano come punizioni o ingiustizie inferte da un genitore poco attento ai suoi bisogni, poco empatico, critico e per il quale il suo impegno e la sua dedizione non erano mai abbastanza. Percepiva tutti come più fortunati e più “accuditi” di lei. Il dolore, la fatica e la solitudine che provava ogni volta erano perciò enormi. Accanto al problema concreto c’era la sensazione di essere sola, non capita, diversa da qualsiasi altro.
Nadia era cresciuta con due genitori completamente assorbiti dalla loro conflittualità coniugale, con una serie di idee preconcette su come dovesse essere l’educazione dei figli (la rigida educazione del padre e il fatto che per la madre figli fossero solo trofei da mostrare). Le richieste implicite ed esplicite che loro facevano erano tante, e le loro reazioni (soprattutto della madre) se queste non venivano esaudite erano spesso di critica violenta. Non c’era effettivamente spazio nelle loro menti per chiedersi di cosa Nadia avesse bisogno o come si sentisse. Doveva essere autonoma, funzionare bene, essere brillante e non creare problemi. Tenerezza, indulgenza e coccole erano assenti nella sua educazione e nel tipo di interazione che i genitori avevano con lei. Le credenze patogene che i suoi bisogni fossero un peso (senso di colpa da burdening), che ciò che lei era e faceva non era mai abbastanza (odio di sé) e che in quanto figlia di due persone illustri dovesse essere oggetto dell’invidia altrui (senso di colpa del sopravvissuto) le impedivano di trovare equilibri soddisfacenti.
Il modo in cui, quando era sola, gestiva la sua vita era la risultante di una serie di compromessi e di equilibri che con queste credenze aveva provato a imbastire. Per compiacere alle richieste dei genitori si dava tantissimo da fare per essere sempre autonoma, brillante ed efficiente (nella vita come nel lavoro). Ma farlo significava inevitabilmente essere sola, non vista e non capita nei suoi bisogni e nelle sue fragilità più autentiche. Il senso di colpa del sopravvissuto sigillava questi modi di sentire. Lei era diversa e non avrebbe mai potuto avere quello che avevano gli altri.
Era qui che la fantasia amorosa veniva in suo soccorso. All’altro Nadia affidava il compito di farla sentire accudita e alleggerita da questi fardelli. L’altro doveva portarle quella leggerezza (ribellione al senso di colpa da burdening, all’odio di sé e al senso di colpa del sopravvissuto) che lei non riusciva a sentire o a concedersi. Per lei era impossibile rinunciare a Luca perché il modo in cui lui le stava accanto quando era triste e arrabbiata, il modo in cui l’accarezzava, così carico di calore, di tenerezza e di sentimento, erano un balsamo straordinario. Luca l’accudiva e l’amava come né sua madre né suo padre avevano fatto mai. Allo stesso tempo, non poteva tradire i genitori interni. Se Luca non rispettava perfettamente il copione che lei aveva nella mente diventava con lui tirannica e critica, come lo era stata sua madre. Ripetendo senza fine quel teatro di dolore e impossibilità che era stata la relazione tra i genitori. Nec cum te nec sine te possum stare scriveva Catullo alla sua crudele Lesbia. La relazione con Luca era caduta nella rete del suo senso di colpa del sopravvissuto; come i genitori, anche loro non potevano amarsi in modo sereno.
In seduta non andava troppo diversamente. Il terapeuta doveva ascoltarla, sostenere e validare i suoi punti di vista, restituirle una comprensione calda e attenta dei bisogni che lei aveva sentito non accolti dall’altro. Ma la sensazione con lei era di “camminare sulle uova”. Qualsiasi restituzione che provasse a mostrarle anche solo un punto di vista diverso, o a mettere in collegamento il suo vissuto nei confronti dell’altro con delle esperienze della sua infanzia, nella migliore delle ipotesi era ignorata o ritenuta non rilevante, nella peggiore veniva accolta con l’espressione di un franco disaccordo carico di collera e dolore. La comunicazione vera era “ecco neanche tu, neanche qui posso sentirmi capita”. Vani erano anche tutti i tentativi di metacomunicare su questa dinamica. Nadia non riconosceva la sua modalità di testing da passivo in attivo (su odio di sé e separazione) né verso il terapeuta né verso Luca (la viveva come un fallimento della sua ribellione su burdening e odio di sé).
Al momento attuale la terapia di Nadia è in corso. Ora lei accetta e tollera l’idea che la sua sofferenza possa essere legata al fatto che è intrappolata in una scelta impossibile, piuttosto che al fatto che Luca sia intrinsecamente difettoso. Riesce a pensare che è lei ad avere una difficoltà ad accettare degli aspetti del modo di essere di Luca e allo stesso tempo a non poter fare a meno di altre sue caratteristiche. Capisce e riconosce, anche mettendolo in collegamento con la sua storia, perché sia cosi difficile rinunciare a Luca. Il livello di fascinazione che il suo tocco o il suo sguardo hanno su di lei sembrano davvero richiamare esperienze e bisogni preverbali: Nadia ne sa descrivere solo la potenza e il loro essere al di sopra di qualsiasi volontà. Completamente rifiutata è invece l’idea della fantasia rigida e del copione o delle ragioni, legate alle esperienze infantili e alle credenze patogene che ne sono derivate, alla base della sua insofferenza rispetto ad aspetti specifici di Luca.

Speriamo che la storia di Nadia abbia aiutato a comprendere meglio fenomeno che abbiamo descritto nella prima parte di questo scritto, e i diversi livelli di difficoltà/impossibilità con cui il lavoro terapeutico deve confrontarsi.

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