I test nell’ottica della Control-Mastery Theory

di Alessandro Carbocci

Secondo la Control Mastery Theory (CMT; Weiss, 1999; Gazzillo, 2016; Gazzillo et al., 2023), le persone hanno come motivazione primaria quella di adattarsi al meglio alla realtà in cui vivono, padroneggiando i propri problemi e controllando, in parte, le proprie funzioni e capacità mentali sia consce che inconsce, guidati dalla ricerca di un senso di sicurezza.

I pazienti, pertanto, sono fortemente motivati a disconfermare le proprie credenze patogene, che le ostacolano nel raggiungere obiettivi, mete, bisogni e desideri che sono sani e normali. Tali credenze si sono formate nelle relazioni primarie di sviluppo e hanno associato il raggiungimento di un obiettivo sano a un pericolo, una perdita di sicurezza, che può essere riferita all’immagine di sé, alla sicurezza e incolumità (fisica, emotiva, morale, cognitiva) di un altro significativo, o alla relazione con lo stesso. Tali credenze sono associate a un carico elevato di ansia, paura, vergogna o colpa (in particolare, diversi sensi di colpa interpersonali). Inoltre, esse si vengono a formare, generalmente, con i caregiver primari in esperienze relazionali traumatiche da shock o da stress, ossia o da un singolo ed intenso evento, oppure da più eventi simili ripetuti nel tempo. Oltre a ciò, essendosi venute a formare precocemente, a livello strutturale e cerebrale tali credenze sono profondamente radicate nella mente della persona e pertanto hanno anche una connotazione etica e morale, oltre che di oggettività reale. In altre parole: per un bambino, ciò che gli viene detto o fatto capire, percepire, dai genitori non è uno dei possibili sguardi che si possono avere sugli altri, su di sé e sul mondo, ma è l’unico possibile, nonché il solo giusto (Weiss, 1999; Gazzillo, 2016).

Oltre a ciò, la disconferma delle credenze patogene è resa difficile dal fatto che noi esseri umani siamo sistemi complessi e, come tali, tendiamo all’auto-organizzazione (Guidano, 1988; Guidano, 1992; Guidano et al. 2019). Pertanto, questo assunto implica il fatto che, in presenza di un agente esterno perturbante, la persona tenderà a filtrare e organizzare l’esperienza secondo bande di emozioni, spiegazioni e attribuzioni di significato circoscritte che già, più o meno consapevolmente, conosce. Ciò avviene al fine di mantenere un senso di continuità, prevedibilità e coerenza di sé, degli altri e del mondo; quindi cercando di mantenere un senso di padroneggiamento e di apparente sicurezza e adattamento. Questo processo darà luogo, in parte, a fenomeni come i “bias di conferma” e le “profezie che si autoavverano”, per cui si è più sensibili ai segnali che confermano una nostra opinione o credenza, rispetto a quelli che la disconfermano (Kahneman, 2017; Gazzillo et al., 2016). Tali “bias” cognitivi-emotivi sono processi che, di per sé, hanno una natura evoluzionisticamente adattiva perché, quando automatizzati e appropriati, permettono una lettura e un adattamento alla realtà rapido ed efficace. Tuttavia, proprio per questo, hanno il vincolo di auto-alimentare in senso confermativo il sistema, cristallizzandolo e irrigidendolo, oscurando e ostacolando la possibilità dell’individuo di fare esperienza di sé, di sé con gli altri e col mondo con versioni, significati ed emozioni differenti.

Se, tuttavia, il funzionamento di tale sistema fosse egosintonico e le persone vi si identificassero totalmente, non percepirebbero disagio e sofferenza. Una possibile spiegazione del fatto che, invece, le persone soffrano per le loro condizioni e ricerchino, specialmente in terapia, una soluzione ai loro problemi può essere fornita anche dai modelli psicologici che prevedono l’esistenza di Sé multipli, più o meno disaggregati, dissociati e/o interagenti tra loro (Van Der Hart, 2010; Bromberg, 2012; Fisher, 2017). 

Non solo, un’altra possibile spiegazione potrebbe derivare dal modello AIP (Adaptive Information Processing, Shapiro et al., 2019), secondo cui gli esseri umani possiedano un sistema di autoguarigione psicologica che ha l’obiettivo di fornire soluzioni positive, cioè adattive, alle esperienze quotidiane. Tale naturale propensione all’autoguarigione sarebbe ostacolata da esperienze avverse che non vengono correttamente elaborate dal sistema. Pertanto, le persone continuano a vivere e riproporre ciò che le fa soffrire al fine di poterlo elaborare in modo più positivo e adattivo. I pazienti allora, non appena possibile, mettono alla prova le loro credenze patogene al fine di esplorare il loro ambiente interpersonale; capire quanto si possano sentire al sicuro con la persona che hanno davanti e cosa potersi aspettare dalla relazione stessa; valutare quanto quindi siano ancora attuali e vere le credenze patogene che generano sofferenza e che li ostacolano dai loro obiettivi sani e legittimi. Per mettere alla prova le credenze patogene, quindi, i pazienti si servono dei cosiddetti “test relazionali”. Questi possono manifestarsi attraverso comportamenti, atteggiamenti, o comunicazioni che, soprattutto in terapia, hanno lo scopo di vedere se il terapeuta li supererà disconfermando le credenze che li sostengono o se, invece, li fallirà andando a confermarle, come in genere capita loro nella vita quotidiana (Gazzillo, 2016; Gazzillo, 2023). Disconfermando le credenze patogene, dunque, il terapeuta fungerà da “perturbatore strategico” (Guidano, 1988; 1992) rispetto al sistema di credenze del paziente, aprendo progressivamente alla possibilità di una modifica del modo di percepirsi, raccontarsi e sentirsi; confermandole, invece, ne irrigidirà la struttura e l’organizzazione di base.

Ci sono alcuni indicatori per capire se un paziente sta verosimilmente testando le credenze patogene in terapia (Weiss, 1999; Gazzillo, 2016; Gazzillo et al., 2021; Gazzillo, 2023):

– Quando il paziente pone una richiesta, sia implicita che esplicita;

– Quando il paziente provoca o suscita nel terapeuta emozioni più forti, intense o 

               insolite rispetto a quelle che in genere il terapeuta prova nei suoi confronti;

– Quando il terapeuta si sente spinto a intervenire o agire in qualche modo;

– Quando il paziente si comporta in modo più illogico, provocatorio o assurdo del 

              solito;

Per certi aspetti, dunque, fintanto che la terapia e la relazione procedono in modo fluido, il terapeuta può limitarsi a seguire il paziente, confidando nel fatto che sta cercando di avvicinarsi e raggiungere i suoi desideri e obiettivi sani. Quando invece si ha l’impressione che la sintonia sia venuta meno, o ci sia qualcosa di incrinato nella relazione, il terapeuta può iniziare a chiedersi se il paziente lo stia testando (Gazzillo, 2021). Quando testano, inoltre, i pazienti sono in genere più angosciati, poiché rischiano di essere nuovamente traumatizzati. Quando ciò avviene e, quindi, il terapeuta fallisce il test di un paziente, questo diventa più ansioso e/o depresso. Può cambiare argomento, non rispondere alle osservazioni del clinico e perdere interesse in quanto si sta dicendo, e la sua terapia può finire in uno stallo, o addirittura in un drop-out. Quando invece il terapeuta supera i test del paziente, questo diventa meno ansioso e depresso; si coinvolge di più e in modo più attivo nel lavoro terapeutico e nella relazione; diventa più coraggioso e riflessivo; emergono materiali nuovi o si approfondiscono ed elaborano maggiormente materiali già emersi e analizzati; possono essere raggiunti anche importanti insight (Gazzillo, 2021; Gazzillo, 2023).

In generale, i test si possono dividere in diverse tipologie e “famiglie”. La prima di queste, fa riferimento ai “test osservativi”. Questa è l’unica tipologia di test in cui il paziente non fa nulla di attivo verso il terapeuta per suscitargli una risposta, ma si limita a osservare i suoi comportamenti e gli atteggiamenti generali per valutare quanto confermino o meno le sue credenze patogene, o quanto il terapeuta le condivida con lui. È una modalità covert di testare il terapeuta in cui, qualora il test venisse superato, potrebbe verificarsi un apprendimento per osservazione (Gazzillo, 2016; Weiss, 1999; Gazzillo, 2023).

Ad esempio, una paziente molto precisa, composta e rigida, con la credenza patogena per cui se si farà vedere per com’è l’altro la criticherà e farà sentire umiliata, mi ha riferito di essersi sentita molto sollevata e di essersi progressivamente sciolta in terapia, mostrando un atteggiamento più disinvolto e meno coartato, rigido e impostato, grazie al fatto di avermi percepito “naturale, a proprio agio, disinvolto e leggero”, nel modo di tenere il setting terapeutico con lei, senza badare troppo agli aspetti più formali, rigidi e ingessati.

Altre due tipologie di test sono quelli di “rifiuto” e quelli di “protezione”. La prima ha lo scopo di disconfermare la credenza patogena per cui se ci si mostrerà per come si è, esprimendo i propri bisogni e desideri, allora si verrà rifiutati. Apparentemente, il paziente cerca in tutti i modi di farsi rifiutare o di rifiutare l’altro, nella speranza però che il terapeuta resista a questi “attacchi” e continui a tenere la relazione con lui, accettandolo e facendogli vedere che può accettarsi anche lui, nonostante questi comportamenti o atteggiamenti (Gazzillo, 2021).

Ad esempio, Marco è un ragazzo con forti vissuti di indegnità personale, in cui vi è l’aspettativa che l’altro lo rifiuterà “come uno scarto umano”, perché “disgustoso e immeritevole di ricevere vicinanza e aiuto”. A un certo punto del percorso insieme, a Marco capitano due eventi ravvicinati: viene criticato e umiliato da un coinquilino durante un litigio per il modo con cui si prende cura della casa, del cibo e della sua stanza, e viene scartato da altri ragazzi di un’altra casa, che era andato a vedere con l’idea di trasferirsi, con la motivazione che fosse troppo introverso e di poche parole. Da quel momento, Marco inizia a saltare alcune sedute o ad arrivare in ritardo. Io mi sono limitato a dirgli, più volte, che credevo nel percorso di terapia e che lo avrei aspettato perché pensavo si meritasse di ritagliarsi quello spazio per sé. Dopo un po’, Marco ha ripreso a venire in orario e stabilmente, arrivando poi a riferirmi che, in quel periodo, voleva vedere se si poteva fidare di me, nonostante quello che faceva.

I test di protezione, invece, sono una serie di test attraverso i quali i pazienti cercano di vedere se il terapeuta disconfermerà l’aspettativa di non meritare o poter ricevere protezione. Sono test in cui il paziente si mette generalmente in pericolo o adotta condotte che potrebbero mettere a repentaglio la sua vita, come l’uso di sostanze o comportamenti anticonservativi (Gazzillo, 2016).

Ad esempio, Emanuele ha un senso di sé come fragile, incapace, inferiore rispetto agli altri e che nessuno si prenderà cura di lui o si interesserà di dov’è e di cosa fa. In seduta mi parla e mi fa vedere i video che si fa mentre pratica attività che lo espongono fortemente a pericoli, come arrampicarsi e saltare da un edificio a un altro. Il mio atteggiamento nei suoi confronti è di validazione rispetto al coraggio e alle sue capacità, ma gli rimando anche la preoccupazione per la sua salute e vita, invitandolo a riflettere insieme se ci siano altre strade per rinforzare il suo senso di capacità e di forza, che non siano questi che lo espongono a pericoli per la sua salute. Emanuele a quel punto si rasserena e diminuirà un po’ questa tipologia di comportamenti.

Altre tipologie di test, centrali, in ottica CMT sono raggruppabili in due macro-categorie: i test di transfert e i test da capovolgimento da passivo in attivo. 

All’interno di queste due categorie, vi sono due ulteriori sotto-insiemi, in cui i test possono avere la forma di compiacenza, oppure di ribellione. Anche in questo caso ci sono una serie di indicatori che possono guidare il clinico a capire se si trova davanti a un test di transfert o a un test di capovolgimento da passivo in attivo. Nei test di transfert, infatti, il paziente “gioca” il ruolo di sé bambino e figlio nella relazione con il genitore, e quindi metterà il terapeuta nella posizione del genitore traumatizzante. A livello di relazione clinica, quindi, il terapeuta conserva una percezione di maggior potere e controllo nella dinamica relazionale del qui ed ora, sebbene si senta spinto ad agire ai contenuti portati dal paziente. Al contrario, nei test di capovolgimento da passivo in attivo è il paziente a mettersi nei panni del genitore traumatizzante e a investire il terapeuta nel ruolo di sé bambino, suscitandogli una serie di vissuti emotivi per lui soverchianti, negativi o inaccettabili. In questo caso, il terapeuta si potrebbe sentire più in balìa, senza controllo, impotente, nella dinamica relazionale del qui ed ora (Weiss, 1999; Gazzillo, 2016; Gazzillo et al., 2021). In generale, quindi, è importante che il clinico abbia una buona sintonizzazione con il proprio mondo interno e con le sensazioni ed emozioni che il paziente gli suscita. In particolare, deve essere in grado di differenziare quanto di ciò che gli si sta attivando abbia a che fare con lui, i suoi temi e la sua storia, e quanto invece abbia a che fare con il paziente e la relazione con lui. Se ha a che fare con il paziente e i suoi test, è molto probabile che il vissuto che il terapeuta sta sperimentando sia esattamente ciò che non deve fare, altrimenti confermerebbe la credenza patogena di base (Weiss, 1999; Gazzillo, 2016; Gazzillo et al., 2023).

Più nello specifico, i test di transfert per compiacenza si manifestano con comportamenti, atteggiamenti, disposizioni, emozioni, pensieri e verbalizzazioni che assecondano e seguono la credenza patogena che li sostiene. Il terapeuta, per superare questo test, deve disconfermare la credenza patogena assumendo un atteggiamento o un comportamento opposto rispetto a quello che hanno avuto le figure di riferimento del paziente in passato.

Per esempio: Davide è un giovane ragazzo che, nell’esplorazione del suo problema, mi porta come credenza patogena quella per cui se porterà un suo bisogno, desiderio, lamentela o richiesta, appesantirà, disturberà, oppure genererà nell’altro una reazione aggressiva e rabbiosa, per cui si litigherà e verrà rifiutato, escluso e lasciato da solo con il suo senso di vergogna. Questa credenza si è venuta a formare nella relazione con la madre, una donna rigida e rabbiosa che pretendeva da lui prestazioni alte, rigorose, precise e ordinate negli studi e nelle faccende di casa, e che non era disponibile a richieste o sue difficoltà emotive, umiliandolo, criticandolo o dandogli l’idea che le sue richieste fossero eccessive e l’appesantissero. Davide, pertanto, nella vita si è organizzato cercando di essere impeccabile dal punto di vista morale e prestazionale, come a scuola, evitando il più possibile di parlare di sé, chiedere, proporre, pretendere, manifestare bisogni e desideri. Ciò lo ha progressivamente portato a sentirsi escluso dal gruppo dei pari e dal punto di vista sessuale e sentimentale. Questa credenza si è manifestata anche nella relazione con me, in diverse occasioni. Ad esempio, Davide ha sempre accettato gli orari che gli proponevo io, acconsentendo anche a variazioni e cambiamenti talvolta improvvisi, senza mai protestare. Il mio vissuto era che tanto, Davide, non era un paziente che avrebbe “fatto storie”, uno di cui non mi sarei dovuto preoccupare. Parallelamente a questi eventi, la terapia ha avuto uno stallo, in cui Davide mi aveva iniziato a parlare di cose superficiali e non sembrava più coinvolgersi come all’inizio. Questo mi ha spinto a domandargli se gli orari che gli proponevo gli andassero bene e se, nelle variazioni d’orario che erano capitate, avesse avvertito fastidio, irritazione o altri tipi di emozioni. Sebbene abbia inizialmente negato, dopo un po’ ha ceduto e ha confessato di aver provato irritazione e che non fosse così comodo con alcuni degli orari che avevamo fissato in precedenza. In sostanza, Davide stava compiacendo la credenza patogena di non poter protestare e portare i suoi bisogni e desideri, mentre io stavo fallendo questo test, andando a incrinare sia la relazione sia il percorso. Dopo esserci soffermati su questo episodio e aver legittimato e incoraggiato l’espressione dei suoi vissuti e bisogni, Davide ha ripreso a coinvolgersi nella terapia e ora è lui a proporre gli orari o, in generale, c’è una partecipazione più attiva e condivisa nella scelta degli stessi, oltre al fatto che ha iniziato a sentirsi più libero di portare i suoi bisogni con più chiarezza anche nella sua vita quotidiana.  

Nei test di transfert da ribellione, invece, il paziente si mette sempre nella posizione del sé bambino e investe l’altro del ruolo del genitore traumatizzante, ma invece che assecondare e compiacere la credenza patogena, la attacca, la confronta e cerca di andare nella direzione esattamente opposta. Questo, in genere, è la tipologia di test che, nella vita quotidiana del paziente, incorre in maggiori rischi di conferme da parte degli altri, aumentando l’angoscia e i suoi sensi di colpa interpersonali, poiché suscita maggiori sensazioni ed emozioni scomode per il sistema che le ha generate. Non solo, proprio perché il paziente è invischiato nella credenza patogena e cerca di combatterla, l’angoscia e i sensi di colpa provati sono tali per cui i comportamenti e atteggiamenti che assume per fronteggiarla sono esagerati, estremi, con caratteristiche autopunitive che, spesso, finiscono comunque per confermare la credenza patogena di base, incidendo negativamente sulla sua qualità di vita. Tra le tipologie di test, tuttavia, è quello più “positivo”; nel senso che va nella direzione della cura, della disconferma della credenza patogena. Questa tipologia di test, per essere superato, deve essere supportato e validato dal terapeuta, ma limando le esagerazioni e le manifestazioni eccessive che vanno a ostacolare la realizzazione personale del paziente (Weiss, 1999; Gazzillo, 2016; Gazzillo et al., 2022; Gazzillo, 2023).

Esempio: Francesca è una giovane ragazza che, nell’esplorare il suo problema, riporta come credenza patogena il fatto che se sarà più brava di mamma, o avrà una vita migliore dal punto di vista lavorativo, sentimentale e di realizzazione personale e quindi si allontanerà da lei, la madre ne soffrirà. Tale credenza è nata dal fatto che la madre di Francesca ha cresciuto lei e la sorella da sola, rinunciando ad avere una nuova vita sentimentale, personale e amicale, e investendo tutto nel lavoro per poter permettere alle figlie di fare ciò che volevano. Nella vita quotidiana, Francesca si mostra ambiziosa, a tratti arrogante, ottiene ottimi risultati in ambito scolastico, sportivo e poi lavorativo. Tuttavia, avendo sempre standard molto alti e ostentando ed esagerando i suoi tratti caratteriali, sente “che manca sempre qualcosa” a livello relazionale e lavorativo, per cui lascia o viene lasciata, dovendo ricominciare da capo ogni volta. Nel lavoro insieme stiamo cercando di validare il suo impegno e le sue ambizioni, di sentire come legittimo il suo bisogno di realizzarsi e avere una vita soddisfacente, limando le tendenze autopunitive e sabotanti.

Per quanto riguarda i test da capovolgimento da passivo in attivo, invece, la versione compiacente implica che il paziente si comporti come il genitore traumatizzante e che faccia sentire il terapeuta come lui si era sentito da bambino. Generalmente, quindi, il terapeuta si potrebbe sentire schiacciato, soverchiato, impotente, umiliato, svergognato, indegno, inadeguato, incapace, ecc.. La speranza del paziente, in questo caso, è che il terapeuta gli faccia da modello, e che gli faccia vedere come non soccombere di fronte a questi comportamenti, come tollerare, stare e reagire ad essi. In questo modo, dunque, il terapeuta fornisce un’esperienza emotiva correttiva su come poter elaborare e integrare le emozioni disturbanti e traumatizzanti per il paziente, consentendogli quindi di identificarsi con lui e poter imparare anche lui a stare con quelle emozioni (Weiss, 1999; Gazzillo, 2016; Gazzillo et al, 2022).

Esempio: Carlo è un ragazzo con la credenza patogena per cui se non si dimostra performante, allora vorrà dire che è un fallito, che è un peso e gli altri lo criticheranno, umilieranno ed escluderanno. Questa credenza si è venuta a formare nel corso della sua vita nell’interazione sia con la madre sia con il padre. La madre, donna con forti tratti ossessivi, lo rimproverava per i suoi modi grezzi, approssimativi, nel fare le cose quotidiane o scolastiche. Mentre il padre lo criticava e lo picchiava, rimandandogli l’idea di fallito e inadeguato, ogni volta che non riusciva a scuola e, successivamente, nel lavoro, facendogli pesare il fatto che era lui a mantenerlo economicamente.

Alla fine del nostro primo incontro, Carlo esprime critiche, dubbi e perplessità sul fatto che potrò aiutarlo con i suoi problemi, perché mi reputa troppo giovane e quindi inesperto. Il modo con cui lo fa è freddo, sprezzante. Io avverto la svalutazione, mi sento nella posizione di inadeguato, ma decido di non entrare in conflitto con lui, e neanche di convincerlo della mia preparazione. Gli valido i suoi dubbi, è evidente che io sia giovane e che non eserciti questa professione da molto tempo, ma allo stesso tempo gli rimando la necessità, dal mio punto di vista, di prenderci ancora un paio di incontri prima di decidere, insieme, se io possa fare al caso suo oppure no. Gli rimando anche che, qualora avessi percepito di non potergli essere d’aiuto, glielo avrei comunicato e lo avrei indirizzato da qualcuno di fidato, e che lui, in generale, sarebbe stato comunque libero di interrompere il percorso in qualunque momento. Carlo a quel punto si è disteso, ha cambiato postura e ha accettato di proseguire il percorso insieme.

Infine, i test da capovolgimento in passivo in attivo per ribellione prevedono che il paziente si comporti come avrebbe voluto che il genitore traumatizzante si comportasse con lui, mettendo in atto dunque tutta una serie di atteggiamenti e comportamenti opposti rispetto a quelli che ha ricevuto. In questo caso, dunque, si controidentifica con il genitore traumatizzante e spera che il terapeuta, nel ruolo di sé bambino, gli faccia vedere che può godere e stare con quei comportamenti che a lui sono mancati. Se il terapeuta valida, incoraggia, si legittima e sta con questi vissuti, può offrire l’esperienza emotiva correttiva per cui il paziente sente che può identificarsi con il terapeuta e quindi che può concedersi anche lui quei comportamenti e le sensazioni che ne conseguono, cercandoli anche nelle altre persone che incontra nella sua vita quotidiana (Gazzillo et al., 2022).

Esempio: Valentina è una giovane ragazza che ha sviluppato una credenza patogena per cui per rendere felice la madre e non farla stare male, o sentire in colpa, deve essere autonoma, non dare fastidio e inibire i suoi bisogni, desideri e difficoltà. Questa credenza si è formata perché la madre, a causa del lavoro, era spesso fuori casa e Valentina fin da molto piccola si è trovata a trascorrere molto tempo da sola, dopo scuola, a casa, imparando anche ad esempio a cucinare per sé e la madre. Quando parla della madre, ne parla in termini di assenza sia fisica, sia rispetto ad attenzioni a livello emotivo. Mentre ne parla è arrabbiata, ma quella rabbia non riesce a portarla nella relazione con la madre. Si sente sola, non vista e non considerata nei suoi bisogni. Verso le altre persone, però, mostra un atteggiamento molto attento e presente: ricorda i compleanni di familiari e amici, organizza feste, eventi, sorprese, fa regali, domanda come stanno, li aiuta, supporta e sostiene nel momento del bisogno, anche quando non glielo chiedono. In altre parole, fa sentire gli altri visti, accuditi, coccolati nei loro bisogni, anticipandoli e soddisfacendoli quanto prima, continuando però a mettersi in secondo piano e non ricevendo, di fatto, lo stesso tipo di attenzioni.

Nonostante ogni persona abbia delle specifiche credenze patogene e modalità di testing, che la rendono unica e per la quale il trattamento sarà unico e “cucito” addosso, la credenza patogena che crea sofferenza e sulla quale si può lavorare può essere testata secondo tutte le varie modalità di testing, in diversi momenti della terapia (Gazzillo, 2021).

In genere, si capisce di aver superato un test o meno a posteriori, osservando il comportamento e l’atteggiamento generale del paziente. In particolare, come detto in precedenza, se si è riusciti a superare un test, il paziente risulta più collaborativo, coinvolto nella terapia, ricomincia a elaborare e integrare informazioni su di sé, recupera memorie e materiali rimossi; la relazione con il clinico diventa più solida. Al contrario, quando non si superano i test, il paziente cambia argomento, appare meno collaborativo, meno produttivo, dà risposte più superficiali o diventa più angosciato, sofferente o inibito, chiuso. La terapia raggiunge una fase di stallo in cui ci possono essere o peggioramenti dei sintomi o dei veri e propri drop-out. 

Prima di arrivare a quest’ultimo punto, comunque, il paziente cercherà di mettere in atto tutta una serie di comunicazioni e azioni di coaching, con lo scopo di far capire al terapeuta di cosa ha bisogno, proprio in virtù del fatto che è fortemente motivato a raggiungere i suoi obiettivi sani e adattivi. Perciò, se il paziente percepisce che il terapeuta non riesce a superare alcune tipologie di test, cercherà di testarlo secondo la modalità che riesce a superare. Oppure, cercherà di testare un’altra credenza patogena, di ordine gerarchico inferiore, per vedere se il terapeuta riesce a superare i test relativi a quella, per ricreare quindi il senso di sicurezza e riprovare successivamente con la credenza patogene principale. Inoltre, i pazienti possono testare con lo stesso comportamento credenze patogene diverse (Gazzillo, 2021).

Per esempio, Enrica in terapia mi ha portato la volontà di interrompere il percorso motivata dal fatto che si stesse sentendo meglio, più in controllo della sua vita e in grado di decidere per lei e in modo autonomo, slegato dalle aspettative altrui. In questa comunicazione ho pensato che mi stesse testando con un transfert di ribellione rispetto alla sua credenza patogena per cui se non è disponibile ad assecondare e soddisfare i bisogni e richieste degli altri, questi la criticheranno o abbandoneranno. Allo stesso tempo, però, in lei è presente anche la credenza patogena per cui non è meritevole di attenzione verso i suoi bisogni, poiché indegna e disgustosa, perciò ho pensato stesse facendo anche un test di transfert per compiacenza rispetto al fatto che avrei creduto che stesse bene, non vedendola e lasciandola andare senza cogliere il suo reale bisogno. La mia risposta è stata di validazione e di incoraggiamento rispetto al fatto di sentirsi più indipendente dal punto di vista pratico ed emotivo, ma che ci fosse ancora il pezzo della sua infanzia e storia di vita su cui avremmo potuto lavorare, qualora ne avesse sentito la necessità. Enrica ha accettato di proseguire ancora per un pezzo il nostro percorso, parlandomi per la prima volta delle violenze che aveva subito dal padre, da piccola.

Ancora, le persone possono utilizzare uno stesso comportamento, o comportamenti molto simili, in momenti diversi della vita o in terapia, per testare credenze patogene diverse. Altre volte, i pazienti possono mettere in atto un comportamento che può essere allo stesso tempo sia un test di transfert sia un test da passivo in attivo.

Ad esempio, Lorenzo ha la credenza patogena per cui se chiede vicinanza emotiva nei momenti di sofferenza, la madre ne sarà spaventata, lo criticherà, umilierà e non gli parlerà per giorni, alzando “un muro”. Pertanto, Lorenzo nelle sue relazioni quando non riceve una vicinanza emotiva per come lui si aspetta, protesta, litiga, umilia, si allontana e rompe la relazione, mettendo su un muro, in modo rabbioso. Questo comportamento potrebbe essere sia un test di transfert di ribellione, per cui esige vicinanza e cerca di disconfermare la sua credenza patogena, ma potrebbe anche essere un test di capovolgimento da passivo in attivo per compiacenza per cui cerca di far sentire l’altro come si sentiva lui quando veniva rifiutato dalla madre. In questo caso, dunque, potrebbero sorgere dubbi su quale sia dei due test oppure, se effettivamente fosse espressione di due test contemporanei, potrebbe essere difficile per il clinico sapere come muoversi. Secondo la teoria CMT, in caso di dubbio è sempre meglio dare la precedenza alla dimensione del testing nel transfert. La motivazione di questo sta nel fatto che, dato che nei test di transfert il clinico è rivestito del ruolo di genitore traumatizzante, se il terapeuta fallisse il test ri-traumatizzerebbe il paziente, confermandogli la credenza patogena mentre lui “gioca” il ruolo di sé bambino (Gazzillo, 2021; Gazzillo et al., 2022; Gazzillo, 2023).

In generale, dunque, secondo l’ottica CMT il lavoro sui test è il cuore del lavoro psicoterapico poiché è attraverso il loro superamento e la relativa disconferma delle credenze patogene che si permette di offrire al paziente l’esperienza emotiva correttiva tale per cui si innesca il processo di cambiamento.

I concetti di test relazionale e di atteggiamenti, comportamenti, agiti o emozioni portate nella relazione nel qui ed ora della terapia, che possono creare impasse, incrinature, rotture o fratture nel rapporto con il terapeuta, tuttavia, sono presenti anche in altre prospettive e teorie metodologiche. Ad esempio, Safran e Muran (2003) e Muran et al. (2021), hanno concentrato i loro lavori proprio sui momenti di rottura e riparazione dell’alleanza e relazione terapeutica, individuano nei comportamenti d ritiro e di confronto degli indicatori di rotture nell’alleanza terapeutica. Tali comportamenti, inoltre, sarebbero espressione di cicli interpersonali (ossia i test per la CMT) disfunzionali, a loro volta espressione concreta di schemi interpersonali disfunzionali (ossia le credenze patogene per la CMT). Per “ritiro” e “confronto” non si intendono comportamenti come quelli che potrebbe avere un paziente con un disturbo evitante di personalità, quanto piuttosto manifestazioni di potenziali conflitti con il terapeuta. Le rotture da ritiro si verificherebbero quando i bisogni di mantenimento della relazione superano quelli legati all’affermazione di sé, mentre quelle da confronto il contrario (Semerari, 2022). Tali rotture sono espressioni di disagio e di tensione che il paziente ha sviluppato nei confronti del terapeuta e del percorso, in particolare rispetto ai compiti, agli obiettivi di terapia, o nel legame relazionale. Ciò porta a una minore collaborazione e miglioramento del paziente. Nei comportamenti da ritiro il paziente nega, minimizza, cambia argomento, intellettualizza, dà risposte brevi o parla di altro. In ottica CMT, questi comportamenti potrebbero essere segnali di uno o più test falliti, o potrebbero costituire dei test essi stessi. Nei comportamenti da confronto, invece, il paziente porta lamentele o critiche sulla terapia, sul terapeuta o sui risultati che il percorso sta avendo. Anche in questo caso, in ottica CMT, ciò potrebbe essere espressione o di un test fallito, oppure una forma di test stesso, come ad esempio un test di capovolgimento da passivo in attivo. O una forma di coaching.

Per “riparare” queste rotture, gli autori suggeriscono diversi interventi, come quelli diretti o indiretti sui contenuti superficiali (come su un compito o un obiettivo), o sul significato più profondo a livello relazionale dei comportamenti o atteggiamenti dei pazienti. Benché venga prevista la possibilità di agire implicitamente in opposizione rispetto agli schemi patogeni e ricorsivi dei pazienti, nel modello di Safran e Muran ciò che è centrale è l’aspetto della metacomunicazione nel qui ed ora tra paziente e terapeuta. Per riparare sia le rotture da ritiro sia quelle da confronto, infatti, gli autori hanno stilato una sequenza di processi terapeutici che hanno in comune il fatto di accorgersi, da parte del terapeuta, sfruttando il suo controtransfert e la tendenza all’azione che ne deriva, dei marcatori implicito-espressivi o espliciti della rottura dell’alleanza e di portarli alla consapevolezza del paziente. In questo modo, condividendoli, rendendoli espliciti e negoziandoli nel qui ed ora della relazione, con un atteggiamento esplorativo e coinvolgente, il paziente ha modo di far luce, accedere o smettere di evitare o negare vissuti per lui dolorosi (Safran e Muran, 2003). Terapeuta e paziente, dunque, assumono un atteggiamento esplorativo congiunto in cui osservano e condividono reciprocamente i propri stati mentali e il modo con cui essi interagiscono e alimentano il ciclo interpersonale disfunzionale (Safran e Muran, 2003; Muran, 2021; Semerari, 2022).

Successivamente Dimaggio e Semerari (2003), Carcione et al. (2016) e Dimaggio et al. (2019), con la terapia metacognitiva interpersonale (TMI) e con i lavori presso il III Centro di Roma, riprendono e approfondiscono i concetti di cicli interpersonali disfunzionali: ossia atteggiamenti, comportamenti e agiti del paziente nella relazione con il terapeuta che riflettono gli schemi interpersonali che il paziente si è costruito nel corso del tempo e della sua storia di vita. Tali schemi e cicli possono riferirsi tanto a comportamenti che il paziente ripropone “giocando” il ruolo di sé bambino, quanto a quelli in cui si comporta come il suo “carnefice”. E tali comportamenti hanno l’effetto, sul terapeuta, di agire nel modo previsto dal ruolo dello schema. Quando ciò avviene, come dicono anche Safran e Muran (2003; Muran et al., 2021), il terapeuta conferma le aspettative del paziente e si crea un loop all’interno del ciclo interpersonale problematico. Questo punto sembra molto simile a ciò che in CMT viene descritto quando un terapeuta fallisce un test del paziente (Gazzillo et al., 2016; Gazzillo, 2021; Gazzillo et al., 2023).

Nei lavori di questi autori sono stati anche operazionalizzati e concettualizzati alcuni cicli interpersonali specifici (Carcione et al., 2016):

Quello invalidante, in cui il paziente ha un’idea di sé come indegno e sbagliato, prova sentimenti di rabbia, disprezzo e disperazione, e quindi cerca di far sentire il terapeuta come si sente lui.

Un altro ciclo è quello aggressivo abusante, in cui la sensazione di minaccia è quella che caratterizza lo stato mentale del paziente. Egli oscilla tra l’idea di poter essere aggredito e quella di essere l’aggressore, quindi le emozioni dominanti sono la paura e la rabbia, innescate anche dalle reazioni di attacco-fuga. Spesso, questi pazienti, sentendosi minacciati e vulnerabili, aggrediscono con rabbia e fanno sentire il terapeuta come si sentono loro: in allarme, vulnerabili, in pericolo.

Queste due tipologie di cicli interpersonali, in ottica CMT, potrebbero maggiormente riferirsi a test di capovolgimento da passivo in attivo. Ancora, un altro ciclo è quello di allarme, in cui il paziente trasmette al terapeuta, in modo confuso, caotico e disregolato, la sensazione che potrebbe succedere qualcosa di catastrofico e negativo. Il terapeuta si sente spinto ad agire e risolvere la situazione, sentendosi però confuso rispetto a ciò che dovrebbe fare. 

Ancora, altri tipi di cicli interpersonali sono quelli da distacco e competitivo. Nel primo, il paziente si mostra coartato, si sente diverso dagli altri, ha difficoltà a parlare di sé e ha forti vissuti di inadeguatezza e vergogna, che contagiano anche il setting terapeutico. In questo caso, in ottica CMT, tale atteggiamento potrebbe ad esempio essere la manifestazione di test di transfert per compiacenza. Quello competitivo, invece, ha a che fare con quei pazienti che hanno una lettura delle relazioni in ottica di superiorità e inferiorità. Dove in generale è costante il confronto con gli altri in un’ottica di potere. Alcuni di questi pazienti possono porsi in modo irritante e irritare il terapeuta, cercando di farlo sentire umiliato e inferiore (Carcione et al., 2016). In questo esempio, invece, in ottica CMT un simile atteggiamento potrebbe far pensare maggiormente a un test da capovolgimento da passivo in attivo.

Anche secondo questi autori, a livello generale, per uscire dai cicli interpersonali è utile eseguire degli interventi simili a quelli proposti da Safran e Muran (2003). Nello specifico, il terapeuta attua una serie di processi di “disciplina” e regolazione interiore in cui tollera e prende consapevolezza della tendenza ad agire impulsivamente in modo anti-terapeutico a causa dell’attivazione del ciclo; si focalizza sullo stato mentale che sta sperimentando e lo osserva; si domanda in che modo ciò che sta sperimentando è simile, complementare o ha a che fare con il nucleo di sofferenza del paziente. Il tutto, utilizzando un atteggiamento e uno stato interno riflessivo, curioso ed esplorativo rispetto alla dinamica relazionale in atto e allo stato mentale del paziente, avvalendosi anche della self-disclosure (più vicina al concetto di self-involving) metacomunicativa su ciò che sta accadendo nel qui ed ora (Carcione et al., 2016). Una volta ristabilito un clima relazionale disteso e ripristinata la cooperazione tra terapeuta e paziente, è possibile intervenire per favorire l’integrazione e la connessione tra l’esperienza attuale e quelle passate.

Nella TMI (Dimaggio et al., 2019), quindi, seppur con terminologie diverse, i concetti di credenze patogene e di test sembrano essere presenti, così come l’attenzione verso gli stessi nella relazione e nell’alleanza terapeutica. Tuttavia, la modalità principale con cui si tende a disconfermare le credenze patogene dei pazienti e superarne i relativi i test è mediata da tecniche, immaginative o esperienziali. Nella CMT, invece la modalità prediletta rimane quella relazionale, benché si rimanga aperti anche alla possibilità dell’utilizzo di tecniche. Inoltre, rispetto alla metacognzione, nella TMI si prevedono lavori specifici e mirati all’incremento di determinate capacità metacognitive: l’autoriflessività (monitoraggio, decentramento e integrazione); la comprensione della mente altrui (decentramento) e la mastery. Nella CMT, invece, non è previsto un lavoro specifico sulle componenti della metacognizione, ma si ritiene che, superato un test, esse aumento spontaneamente, insieme alla capacità di insight e di elaborazione del materiale portato.

Un’altra modalità di gestione delle crisi, flessioni, incrinature e rotture dell’alleanza e della relazione terapeutica viene proposta anche da Liotti (Liotti & Farina, 2011; Liotti & Monticelli, 2014), nell’approccio cognitivo a indirizzo evoluzionista. In questo approccio, ciò che è centrale nella lettura della dinamica relazionale tra paziente e terapeuta sono i sistemi motivazionali interpersonali (SMI) utilizzati nella diade, dove quello centrale per la buona riuscita della terapia sarebbe quello cooperativo, poiché è quello che massimizza le capacità riflessive e metacognitive. Le difficoltà, i test relazionali e i cicli interpersonali dei pazienti vengono quindi interpretati alla luce del fatto che il paziente, o il terapeuta, o entrambi, non sono sintonizzati sul sistema cooperativo, ma su altri, come quello di rango, in cui potrebbero prevalere emozioni di rabbia competitiva o di vergogna e per cui si potrebbe instaurare una dinamica di potere, di competizione o giudizio tra terapeuta e paziente. Oppure, potrebbero sintonizzarsi sui sistemi di attaccamento-accudimento, in cui il paziente accudisce il terapeuta, o viceversa; o sul sistema seduttivo, in cui il paziente compiace o corteggia il terapeuta, o viceversa. Sempre secondo questo modello, i sistemi motivazionali, talvolta usati come strategie controllanti nei casi di sviluppo traumatico, hanno lo scopo sia di proteggere il paziente dai suoi temi nucleari dolorosi e dalle memorie legate all’attivazione dell’attaccamento, sia di mantenere una coerenza e continuità del Sé, perdendo però quote di metacognizione sui propri o gli altrui stati mentali. Il compito del terapeuta è quindi quello di riportare la relazione su un piano cooperativo e paritetico, al fine di stabilire una buona alleanza e relazione terapeutica, che inciderà sul buon esito del trattamento psicoterapeutico. Per farlo, le modalità descritte dagli autori sono per lo più analoghe a quelle descritte da Safran e Muran (2000) e Muran (2021), in cui centrali sono l’esplorazione congiunta degli stati mentali, la metacomunicazione, i collegamenti tra ciò che accade nel qui ed ora e ciò che è accaduto nell’”allora” del paziente, fino anche alla self-disclosure e self-involving sullo stato mentale ed emotivo del terapeuta rispetto a ciò che accade nel qui ed ora della terapia (Liotti e Farina, 2011; Liotti e Monticelli, 2014; Semerari, 2022). Utilizzando un linguaggio “liottiano” applicato alla CMT, dunque, è possibile osservare anche in questo caso punti di incontro e differenze. Per la CMT, infatti, è centrale il fatto di superare i test associati alle specifiche credenze patogene dei pazienti. E per superarli in modo più efficace, è preferibile una modalità relazionale, reale, agita, implicita, invece che spiegata e cognitiva. Pertanto, i test potrebbero essere manifestati in una posizione relazionale legata tanto allo SMI del rango, quanto a quello dell’accudimento, della sessualità, dell’attaccamento o del gioco. Superare un test, in questo senso, non significa farlo portando il paziente sul sistema cooperativo, ma fornendogli un’esperienza relazionale diversa, correttiva, rispetto a quella che si aspetta di ricevere. Il miglioramento delle capacità metacognitive, inoltre, non è per forza associato all’attivazione del sistema cooperativo, ma al fatto di aver superato un test; così come il peggioramento delle stesse è dato da un fallimento di un test.

Nel modello cognitivo costruttivista-relazionale di Bara (2018), invece, si parla di schemi patogeni e di enactment. I primi sono l’equivalente di ciò che in ottica CMT sono le credenze patogene e nella TMI. Gli enactment, invece, sono la messa in scena degli schemi patogeni, ossia i test per la CMT. La differenza, tuttavia, sta nel fatto che in questo approccio, l’enactment, più che essere concepito come un test da superare per disconfermare le credenze patogene del paziente, viene visto come una riproposizione di schemi e ruoli del passato di cui il paziente deve diventare consapevole in modo da averne il controllo e quindi decidere se metterli in scena oppure no, adottando strategie diverse. Il ruolo del terapeuta è, per così dire, più “sullo sfondo”: il clinico ha come scopo quello di aiutare il paziente a prendere consapevolezza del fatto che il paziente sta mettendo in atto uno schema patogeno invece che entrare nell’enactment e offrire un’esperienza emotiva correttiva, come avviene nella prospettiva CMT. In questo modello, inoltre, benché venga data grande rilevanza alla manifestazione e alla gestione degli enactment, l’attenzione alla relazione terapeutica da parte del clinico è orientata più in ottica “preventiva”. Ossia, il terapeuta cerca di sintonizzarsi sul funzionamento del paziente minimizzando il più possibile i momenti di rottura nella relazione. Infine, in modo concorde alla CMT, viene data molta importanza al momento presente della terapia. In particolare, si ritiene che il cambiamento e l’elaborazione di un enactment passino esclusivamente attraverso una rilettura e ri-attribuzione di significato condiviso nel qui ed ora della terapia, dove il clinico fa da facilitatore nel permettere al paziente di osservarsi rispetto a ciò che sta sperimentando e mettendo in atto (Bara, 2018). 

Ancora, nella Schema Therapy (Young et al., 2007) le credenze patogene vengono racchiuse all’interno dei vari “mode”, ossia categorie utilizzate per descrivere i diversi stati mentali, emotivi e comportamentali del Sé del paziente, dove tra i vari, quello centrale è il “mode del bambino”. Nella relazione terapeutica è previsto che il terapeuta soddisfi i bisogni primari frustrati nell’infanzia, in una sorta di reparenting delle esperienze relazionali primarie e dei relativi bisogni frustrati o mancanti. Sebbene vengano previsti altri ingredienti nella relazione terapeutica, come quelli di calore, empatia, genuinità e di self-involging utile per il paziente, il ruolo centrale rimane quello di un terapeuta incasellato in un ruolo più simile a quello di un genitore, sbilanciando la relazione in un assetto più asimmetrico. Inoltre, centrale per questo approccio sono le tecniche immaginative ed esperienziali (Young et al., 2007; Semerari, 2022). La CMT, a livello relazionale, prevede modalità più interventiste ma, nuovamente, non prevede una regola e un ruolo a priori da dover avere, da parte del terapeuta. In più, non sembra esserci, nell’epistemologia alla base, l’idea che il terapeuta possa in qualche modo vicariare i bisogni o le lacune dei genitori dei pazienti. Il ruolo del terapeuta è quello di comprendere le credenze patogene del paziente e mettersi nella posizione relazionale che gli permette di superare i test del paziente e, di conseguenza, permette a quest’ultimo di legittimarsi obiettivi e mete sane per lui prima inaccessibili perché ritenute pericolose.

In generale, ciò che sembra emergere è che anche in altri approcci (almeno quelli considerati in questo elaborato) si parli di concetti e costrutti affini alle credenze patogene e ai test relazionali della CMT. Tuttavia, il modo con cui vengono concepiti, gestiti e trattati sembra per certi aspetti diverso.

I test, in questi approcci di matrice cognitivista, non vengono visti principalmente come tentativi da parte del paziente di disconfermare le sue credenze patogene, in modo da sentirsi più sicuro di poter raggiungere i propri obiettivi e mete sane e adattive. Il focus sembra essere più centrato sul fatto che siano modalità disfunzionali di stare in relazione di cui il paziente deve diventare consapevole. Per aiutarlo a diventarne consapevole, il terapeuta incarna una figura di “facilitatore”, in cui attraverso l’uso e la regolazione del proprio controtransfert può meta-comunicare e lavorare con lui su un piano metacognitivo, affettivo e/o relazionale. In tutto questo, il terapeuta utilizza e promuove un atteggiamento curioso ed esplorativo, che facilita la presa di distanza dal ciclo interpersonale/enactment in atto, confidando nel fatto che, prendendone consapevolezza, il paziente possa costruire insieme al terapeuta opzioni alternative. In altri contributi, come nella Schema Therapy, si prevede una modalità relazionale più interventista e riparatrice di bisogni primari frustrati, in cui il terapeuta “fa il genitore”.

Nella CMT, invece, queste sono solo alcune delle modalità con cui si può intervenire, non la regola. Infatti, secondo questa teoria, qualunque atto terapeutico non è di per sé né giusto né sbagliato, ma dipende dal piano del paziente (Gazzillo, 2021; Gazzillo, 2023). Nello spazio terapeutico, quindi, un atteggiamento neutro o di osservatore curioso è funzionale solo se pro-plan rispetto agli obiettivi e alle credenze del paziente, altrimenti risulta anti-plan e, di conseguenza, iatrogeno o foriero di impasse o rotture relazionali. Ad esempio, un paziente che ha la credenza patogena per cui se prendesse un’iniziativa diversa rispetto ai canoni familiari verrebbe criticato o riceverebbe consigli non richiesti e intrusivi e che testa questa credenza con un comportamento di transfert per ribellione, potrebbe beneficiare di un atteggiamento supportivo e incoraggiante, oppure neutro, dove l’importante è comunque lasciargli libertà di scelta, di espressione, esplorazione e assunzione di responsabilità. Al contrario, un paziente che ha la credenza patogena per cui deve essere autonomo e limitare i momenti di condivisione poiché altrimenti verrebbe rifiutato dall’altro o lo allarmerebbe e che la testa sempre con un transfert per ribellione, potrebbe beneficiare di un atteggiamento curioso, avere scambi di opinioni e pareri con il terapeuta, in modo da sentirsi ascoltato, visto e in relazione a qualcuno senza allarmarlo o ricevere rifiuto. Ancora, alcuni pazienti, per via delle loro credenze patogene e dei relativi test, potrebbero beneficiare di un terapeuta con un atteggiamento caldo, benevolo e accogliente, mentre altri gioverebbero maggiormente di un terapeuta più direttivo o schietto. Questo perché, appunto, ogni intervento è basato sul piano di cura del singolo paziente e delle sue credenze patogene. Che sia attraverso un comportamento, un atteggiamento, una comunicazione, una restituzione, un commento o un’interpretazione, l’importante è fornire un’esperienza emotiva correttiva che vada nella direzione della disconferma della sua credenza patogena e del raggiungimento sereno e sicuro dei suoi obiettivi e desideri sani. In più, come accennato precedentemente, quasi tutti gli approcci citati in questo elaborato e, in generale, gli approcci che appartengono alla famiglia del “cognitivismo”, seppur con gli anni si siano sempre più interessati alla relazione e all’alleanza terapeutica, tendono a prediligere l’uso di tecniche per superare i test e le credenze patogene dei pazienti. Al contrario, la CMT seppur apra alla possibilità dell’uso delle tecniche, tende a prediligere una modalità relazionale nell’offrire un’esperienza emotiva correttiva, meglio ancora se essa avviene in modo implicito e agito, invece che per via cognitiva o interpretativa. (Weiss, 1999; Gazzillo, 2016; Gazzillo et al., 2022). La CMT, dunque, sembra essere una teoria integrabile con qualsiasi molti psicoterapici. A livello relazionale, inoltre, sembra riporre totale fiducia nel fatto che i pazienti sono realmente motivati a stare meglio e, di conseguenza, il compito del terapeuta sia soprattutto quello di ascoltare e comprendere il paziente rispetto alle sue credenze patogene, al suo piano e alle sue comunicazioni rispetto a come vuole essere aiutato (coaching) e a facilitare, a livello relazionale, l’esperienza emotiva correttiva di cui ha bisogno.

Bibliografia

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