Francesco Gazzillo: Perché hai scelto la Control Mastery Theory come teoria di riferimento e cosa ti ha attratto di più della CMT dal punto di vista personale?
George Silberschatz: Provenivo da una prospettiva molto psicoanalitica e mi è sempre interessata la teoria psicoanalitica, ma una delle cose che non mi convinceva era l’importanza che attribuiva alla teoria pulsionale, alla teoria per cui tutto il comportamento può essere ricondotto alla sessualità e all’aggressività, cosa che mi sembrava troppo semplicistica. E sono stato attratto dalla CMT perché combina una comprensione profonda delle persone, dei loro problemi e della loro personalità con una prospettiva molto umanistica, e a me piace moltissimo questa prospettiva umanistica.
Questa è una delle ragioni per cui, a mio parere, la CMT è una prospettiva più ricca. L’altra, molto importante, è che ha una base empirica, e io ho sempre odiato il fatto che gli psicoanalisti sostenessero che qualcosa era vero solo perché qualcun altro aveva detto che lo era. Qualcuno che aveva autorità, che era famoso nel modo analitico e che lo aveva scritto. Mentre mi piaceva il fatto che Weiss e Sampson mettessero alla prova le loro ipotesi in modo molto rigoroso. Questo mi piaceva molto.
FG: E, in generale, quali sono, secondo te, i maggiori punti di forza della CMT, e se vuoi anche i suoi limiti?
GS: Il punto di forza maggiore, secondo me, è che sottolinea l’individualità di ogni paziente, e attribuisce grande importanza a una comprensione chiara di quali sono gli obiettivi specifici di ogni paziente, le sue credenze e i suoi schemi patogeni e i traumi da cui derivano. Insomma, il fatto che dia tanta importanza alle prospettive individuali. E credo, da clinico, che questo fornisca molte opportunità diverse per lavorare con i pazienti e molti modi diversi per aiutarli. Ti lascia molta libertà, non è una tecnica che dice come lavorare, ma un modo di comprendere la natura della psicopatologia e il modo in cui funziona la mente che ti permette di capire come lavorare con i pazienti. E questo è un punto di forza enorme. Penso che anche il concetto di test, soprattutto di test da passivo in attivo, è molto importante e ti permette di dare un senso a molti comportamenti dei pazienti che altrimenti sarebbero molto difficili da comprendere. Il fatto di intenderli come modi in cui i pazienti cercano di padroneggiare i loro problemi è molto utile, aiuta molto il clinico, ed è un grande punto di forza.
Rispetto ai suoi limiti, e ne ha come tutte le teorie, direi che uno di questi è il fatto che non presta sufficiente attenzione ai fattori propri dei pazienti. Ci sono differenze tra i pazienti nei termini della loro capacità di leggere quello che i terapeuti fanno. Noi sottolineiamo il fatto che i terapeuti devono superare i test dei pazienti e fare interpretazioni compatibili con il loro piano, ma dietro queste idee vi è l’assunto che tutti i pazienti leggano ciò che facciamo in modo ugualmente corretto, e questo non è vero. Alcuni pazienti sono capaci di comprenderlo bene e in modo molto accurato, altri lo capiscono molto male, e altri ancora lo distorcono del tutto. E io penso che questa è un’area a cui la CMT deve prestare molta più attenzione.
FG: E credo che sia anche una cosa a cui dobbiamo prestare attenzione mentre lavoriamo, perché è necessaria per capire in che modo dobbiamo rispondere a quel paziente specifico in quel momento per superare i suoi test.
GS: Esatto. Infatti, noi pensiamo che, se abbiamo compreso la credenza patogena che il paziente sta mettendo alla prova e il modo in cui la sta mettendo alla prova, allora dobbiamo fare questo o quello per superare il suo test. Ma se il paziente legge in modo diverso quello che facciamo, allora non funziona. Quindi sì, credo che questo punto sia molto importante.
FG: A un livello più personale, nel lavoro clinico ti sei mai trovato a vivere situazioni in cui superare i test di un paziente è stato difficile? Ci puoi raccontare cosa è successo?
GS: Sì, succede sempre! Quando spieghiamo la teoria, noi spesso diamo l’impressione che superare i test dei pazienti sia un compito facile, ma nella realtà clinica è molto più difficile. Per esempio, mi sono trovato spesso a lavorare con pazienti molto autodistruttivi, e ho lavorato veramente tanto per fargli superare la loro autodistruttività, ma loro continuavano a comportarsi in modo autodistruttivo, continuavano a bere, a usare droghe. E quindi puoi diventare frustrato e scoraggiarti. Ad esempio, di recente ho avuto una paziente così, io continuavo a lavorare e lei continuava a comportarsi in modo autodistruttivo, e sono arrivato a un punto in cui dentro di me stavo per dirmi: “Basta, davvero non ne posso più, ho fatto tutto quello che potevo e sembra che sia tutto più o meno inutile!”. Ed è come se in qualche modo la paziente si fosse accorta che ero arrivato a questo punto, anche se ovviamente non glielo avevo detto, e ha iniziato a stare meglio, ha smesso di bere, come se avesse capito che non ce la facevo più, non avevo più risorse, avevo dato tutto quello che potevo. E quindi sì, succede molto spesso. Per fare un altro esempio, una mia paziente che era da tantissimo tempo che non aveva una relazione con un uomo perché era molto timida, non riusciva a uscire con gli uomini, e ci abbiamo lavorato per anni. Alla fine ha iniziato a sentirsi meglio, a uscire con un uomo, a sentirsi attratta da lui e a vederlo regolarmente. Fino a che un giorno quest’uomo le ha chiesto se lei stesse uscendo con qualcun altro o era single, e lei gli ha risposto “Sì, esco anche con altre persone”. E non era vero! Quando me lo ha detto, io mi sono detto: “Ma perché?!”. Lei si era comportata così per paura che, se lui avesse saputo che non stava vedendo nessuno, avrebbe pensato che era una perdente! E ne abbiamo parlato. Quindi sì, il lavoro può essere molto difficile anche se si usano i concetti della CMT.
FG: La CMT ti è stata utile per comprendere aspetti della tua vita psichica o delle tue esperienze che non eri riuscito a comprendere adeguatamente nel corso del tuo training o della tua analisi personale?
GS: Una delle cose rispetto a cui mi ha aiutato molto è che mi ha permesso di capire che io mi mettevo da parte per non offendere le altre persone, per non farle sentire da meno, per non farle soffrire, e questo è un punto che nella mia analisi non era stato risolto. Ed è una cosa che ho fatto per molto tempo, visto che sono il fratello più piccolo, ho un fratello e una sorella maggiori, e con loro ho imparato bene a mettermi da parte. E penso che la CMT mi abbia aiutato molto a comprendere queste dinamiche e a controllarle molto meglio, per cui è una cosa che non faccio più.
FG: Un’ultima domanda. Quali saranno, o dovrebbero essere, secondo te, gli sviluppi futuri della Control Mastery Theory?
GS: La cosa che vorrei succedesse è che la teoria diventasse più accessibile a molte più persone, come state facendo voi in Italia. Rendere la teoria più disponibile e accessibile ai terapeuti – penso che questo compito possa essere facilitato dal Metodo della Formulazione del Piano, che reso più accessibile può essere utile anche a terapeuti in training e per scopi di ricerca. Questo sarebbe molto utile.
FG: E lavoreremo insieme per farlo
GS: Questo di certo!