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Traduzioni immediate
Gazzillo F.
19/01/2018
Articolo Nazionale
Introduzione
Come acutamente osservato da George Silberschatz (2016) in un’intervista che si trova sul nostro sito, a volte diamo per scontato che una nostra risposta sia un modo per superare un test, o costituisca un intervento pro-plan, perché è in questo modo e con questo senso che l’abbiamo pensato. E viste dalla prospettiva di un osservatore terzo, le cose stanno realmente così. Ma non è detto che tutti i pazienti “traducano” come ci attendiamo la risposta o l’intervento del terapeuta; anzi, un intervento in buona parte pro-plan o un test apparentemente superato può essere “tradotto” dal paziente come anti-plan o come un test fallito. E credo che i fattori alla base di questi fraintendimenti siano l’intensità con cui un paziente presta fede alle sue credenze patogene e dei sentimenti che a esse si associano.
Contenuto Completo
Come acutamente osservato da George Silberschatz (2016) in un’intervista
che si trova sul nostro sito, a volte diamo per scontato che una nostra risposta sia
un modo per superare un test, o costituisca un intervento pro-plan, perché è in
questo modo e con questo senso che l’abbiamo pensato. E viste dalla prospettiva
di un osservatore terzo, le cose stanno realmente così. Ma non è detto che tutti i
pazienti “traducano” come ci attendiamo la risposta o l’intervento del terapeuta;
anzi, un intervento in buona parte pro-plan o un test apparentemente superato può
essere “tradotto” dal paziente come anti-plan o come un test fallito. E credo che i
fattori alla base di questi fraintendimenti siano l’intensità con cui un paziente
presta fede alle sue credenze patogene e dei sentimenti che a esse si associano.
Facciamo qualche esempio. Una paziente giunge con un quarto d’ora di ritardo
in seduta, e mi dice che ha fatto tardi perché si è fermata a chiacchierare con
alcuni amici che non vedeva da qualche tempo. Poche settimane prima, la stessa
paziente aveva reagito con rabbia e dolore al fatto che un giorno avessi dovuto
rimandarle di qualche ora una seduta a causa di un contrattempo improvviso che
mi rendeva impossibile il vederla. Inoltre, un’accusa che la madre le aveva
spesso rivolto era che fosse una persona che chiedeva molto ma non era disposta
a dare pressoché nulla. Quando le faccio notare che ogni tanto assumeva dei
comportamenti che potevano essere interpretati dagli altri in modo scorretto – se
non mi dai ciò che ti chiedo, ci resto male e mi arrabbio; se mi chiedi qualcosa
che non mi va di fare, mi sento limitata nella mia libertà e non lo faccio - ma che
in realtà erano funzione di desideri sani, normali, cioè essere accettata e non
rinunciare alla propria libertà, lei reagisce come se io le avessi mosso le stesse
accuse che le muoveva la madre. E per due giorni di seguito sta male, si accusa
di egoismo e passa dal pensare che io sia arrabbiato con lei al pensare che mi ha
ferito.
Un’altra paziente mi ribadisce più volte che vuole sentirsi libera di venire o
non venire alle sedute, senza che questo debba rappresentare un problema. Io le
rispondo, pensando a un test di transfert per ribellione, che di fatto lei è e sarà
sempre libera di scegliere se venire o meno. Al che aggiunge che io, se non
viene, non devo pensare nulla, non devo neppure chiedermi perché non sia
venuta, e ovviamente non devo chiederlo a lei. Quando le dico – pensando che
sia un test da passivo in attivo - che lei è libera di venire o no, ma io sono libero
di pensare qualsiasi cosa mi venga in mente, lei sembra contrariata, e resta tale
per un po’ di tempo. Qualche mese dopo arriviamo a capire che lo è perché per
lei è ovvio che il mio pensare rispetto al fatto che non sia venuta sia sinonimo del
pensare che abbia sbagliato a non venire.
Se dovessi indicare dei punti in comune tra questi esempi, potrei dire che sono
casi di test in cui una mia risposta che si discosta anche di poco da quello che la
paziente voleva che dicessi/facessi è immediatamente tradotta nella conferma
della sua credenza patogena. Nel caso della prima paziente, avrei dovuto lasciar
correre il suo ritardo con un “nessun problema” e un sorriso; e avrei dovuto
accettare, nel caso della seconda paziente, l’idea che non mi ponessi neppure il
problema del suo non venire. Non aver fatto così ha significato commettere un
errore.
Essendo test forti di credenze patogene che avevano fatto soffrire molto queste
pazienti e sulle quali stavano lavorando in quella fase della terapia,
necessitavano di risposte chiare, nette e univoche. Nel condurre questi test,
infatti, i pazienti si espongono al rischio di essere ri-traumatizzati, per cui
agiscono come avvolti in un’area di sensibilizzazione post-traumatica che, per
motivi adattivi, li porta a essere estremamente sensibili, appunto, e reattivi a
qualsiasi indizio possa rimandare, anche lontanamente, alla possibilità di essere
nuovamente traumatizzati, cioè alla possibilità che le credenze patogene che
mettono alla prova siano riconfermate. Il problema di questo tipo di
sensibilizzazione è che, pur essendo nato come strategia adattiva auto-protettiva,
rischia facilmente di essere un fattore di ri-traumatizzazione, esponendo il
soggetto a un riproporsi della situazione traumatica (nel proprio vissuto) anche
quando, di fatto, la situazione che sta vivendo è piuttosto diversa da quella
originale.
Il problema si complica poi ulteriormente perché, almeno in alcuni casi, e
ammesso che sia umanamente possibile, il mero superamento di tutti i test non
necessariamente permette la disconferma delle credenze patogene che ne sono
alla base, o almeno non la permette in forma sufficientemente forte e
generalizzabile.
Detto in altri termini, l’interpretazione del senso adattivo di alcuni
comportamenti, e la messa in luce delle possibili implicazioni autopunitive,
possono essere in alcuni casi operazioni dolorose nell’immediato a causa del
fatto che lo stato di attivazione di una credenza patogena può trasformare il senso
di queste comunicazioni agli occhi del paziente rendendole anti-plan sul
momento, ma alla lunga, e se queste distorsioni vengono a loro volta analizzate,
il paziente può acquisire maggiore padronanza sul proprio funzionamento
mentale, dentro e fuori la stanza di terapia. Differenziare, e quindi non
identificare, le proprie credenze patogene con i sensi possibili del comportamento
e delle comunicazioni altrui.
Nel caso della prima paziente, ad esempio, ciò ha significato chiarire che è
normale aver bisogno di conferme del proprio valore e della propria amabilità,
ma senza dimenticare che gli affetti e le reazioni di un’altra persona sono prima
di tutto funzione delle inclinazioni, delle preferenze, dei gusti e degli stati
mentali di quella persona, e non del proprio valore. E che non tutte le persone
sono “giudici” adeguati del proprio valore. Ciò ha significato inoltre esplicitare
che non sempre le richieste di un altro sono imposizioni che limitano
drammaticamente la propria libertà, e che resta in ogni caso la propria libertà di
scegliere se e quando fare ciò che l’altra persona ci chiede. Cioè che tanto il sì
quanto il no all’altro possono essere il frutto di valutazione personale e deliberata
della situazione specifica, e non scelte obbligate in funzione di una “traduzione
automatica” della situazione, traduzione vincolata dalle proprie credenze
patogene.
Nel caso della seconda paziente, chiarire l’accaduto ha significato mostrarle
che sembrava tradurre in modo immediato una comunicazione o un pensiero
dell’altro in una richiesta che la vincolava, e invitarla a prestare attenzione a
questa tendenza a tradurre in modo immediato come vincoli le comunicazioni
altrui, così da permettersi di vivere con maggiore leggerezza le situazioni che non
implicano, di fatto, richieste, e sapere dire di sì o di no in modo riflessivo a quelle
che le implicano. Detto per inciso, anche questo chiarimento è esitato per un po’,
nella seconda paziente, nell’impressione che io stessi cercando di “forzarla” a
fare qualcosa.
In assenza di queste interpretazioni, credo la prima paziente avrebbe
continuato più a lungo a cercare conferme esplicite dagli altri, rassicurarsi sul
proprio valore se queste arrivavano, mettersi in discussione se non ne riceveva e
sottrarsi reattivamente alle richieste degli altri se discordanti con i suoi desideri, e
questo equilibrio, per quanto precario, avrebbe potuto protrarre più a lungo una
condizione di grande dipendenza dall’approvazione altrui e bassa tolleranza
emotiva alle richieste non sintonizzate degli altri. Nella seconda paziente, sono
piuttosto sicuro che la non esplicitazione della sua equazione tra comunicazione e
richiesta avrebbe prolungato di molto il suo bisogno di relazioni discontinue, o
meglio il suo poter tollerare un rapporto solo nella misura in cui il silenzio e la
distanza erano di gran lunga superiori alla presenza e alla comunicazione.
Degno di nota è il fatto che entrambe le pazienti soffrivano per la credenza
patogena per cui se manifestavano il proprio punto di vista o desiderio, diverso
da quello dell’altro, l’altra persona le avrebbe criticate, ne avrebbe sofferto, o le
avrebbe lasciate. E testavano questa credenza per ribellione, con il rischio sempre
presente di doversi punire per questo. Volevano entrambe piacere, ed entrambe
volevano fare di testa propria. E, per entrambe, se l’altro le invitava anche solo a
riflettere su questo punto, ciò significava che le stava criticando, rifiutando o
pressando.
Il punto centrale su cui vorrei attirare le attenzioni del lettore sono queste
“traduzioni immediate”, ovvero le interpretazioni/distorsioni immediate della
realtà, delle parole e delle azioni dell’altro dovuta alle credenze patogene attive
nella loro mente. Un fenomeno che peraltro possiamo riscontrare anche nella vita
quotidiana: un’educatrice molto preoccupata rispetto alle proprie competenze di
lavoro, ad esempio, interpreta il dono di un libro sullo sviluppo dei bambini,6
fattole da una collega, come un’indicazione implicita che sa sbagliando qualcosa
nel suo lavoro – cosa che, di fatto, la priva di un’esperienza che avrebbe potuto
dimostrarle l’affetto e la stima della collega.
Tutto questo deve spingerci a riflettere attentamente su se, quando, come e
cosa dire ai nostri pazienti, in particolare quando ci testano. E ciò non significa
che dobbiamo sempre rinunciare a interpretare per risparmiare ai pazienti delle
sofferenze e superare i loro test in modo univoco, ma che dobbiamo mettere in
conto la possibilità che accrescere il loro controllo esplicito sul proprio
funzionamento mentale e aiutarli a evitare le conseguenze negative di
comportamenti dalla valenza in parte autosabotante può implicare fallire, almeno
in parte e ai loro occhi, alcuni test. Ed è meglio farlo dopo averli superati più e
più e volte, così da facilitare ai pazienti il compito di prestare ascolto a ciò che
diciamo con meno timore. Ed è meglio interpretare quando, complessivamente,
vivono come fondamentalmente sicura la relazione con noi.
Queste “traduzioni immediate” sono chiaramente fallimenti della
mentalizzazione, e si associano in genere ad angosce di tipo persecutorio. E per
poter lavorare su questi deficit e su queste angosce è necessario creare un clima
relazionale e una relazione terapeutica in cui la presenza di una persona che
disconferma le credenze patogene e le aspettative di ritraumatizzazione del
paziente sia data in una buona misura per scontata. I pazienti ce lo chiedono, in
modo implicito ed esplicito, e noi dobbiamo darglielo se vogliamo che possano
accedere a letture molteplici della realtà, materiale e interpersonale, a una
migliore autostima e a una realtà relazionale più benevola e realistica. Superare i
test significa anche questo.