Una breve introduzione alla Control Mastery Theory

La centralità dell'adattamento e del senso di sicurezza

La Control Mastery Theory (CMT), elaborata e verificata empiricamente da Joseph Weiss (1924-2004), Harold Sampson (1925-2015) e il San Francisco Psychotherapy Research Group a partire dagli anni Cinquanta, sottolinea che la motivazione primaria di ogni essere umano è quella di adattarsi al meglio alla realtà in cui si trova a vivere e di padroneggiare (to master) i propri problemi. Secondo questo modello, poi, ognuno di noi ha la capacità di controllare (to control), almeno in una certa misura, le proprie funzioni mentali consce e inconsce, guidato dalla ricerca di un senso di sicurezza.

Un fenomeno ben noto a tutti può aiutarci a comprendere in modo chiaro questi punti. Se andiamo al cinema a vedere un film d’amore, nel corso del quale la coppia dei protagonisti si trova ad affrontare un periodo burrascoso per poi fare pace, in genere ci ritroviamo a piangere solo al lieto fine, cioè quando i due si ritrovano. Apparentemente avrebbe più senso che piangessimo quando gli amanti litigano o si lasciano, cioè quando le cose vanno male, e invece ci troviamo a piangere quando tutto si sistema. Perché?

In un breve e brillante articolo del 1952, Weiss spiega così questo curioso fenomeno: guardando il film, noi ci identifichiamo con la coppia di innamorati e viviamo le loro emozioni come fossero le nostre; per questa ragione, quando i due iniziano a litigare o sono in crisi, anche noi soffriamo, ma non potendo far nulla per risolvere la situazione, non ci sentiamo sufficientemente al sicuro per provare pienamente questi sentimenti per cui inibiamo la nostra sofferenza, o almeno le sue manifestazioni più eclatanti, come il pianto. Quando poi la coppia fa pace e le cose si sistemano, allora ci sentiamo sufficientemente al sicuro per sperimentare a pieno il dolore prima inibito e i pensieri che a esso si accompagnano. Ecco perché piangiamo solo al lieto fine.

Questo fenomeno ci permette peraltro di vedere anche come sia intrinseca in noi la motivazione a padroneggiare le nostre difficoltà: se così non fosse, non avremmo motivo per lasciarci andare al pianto quando il pericolo è scampato. Potremmo semplicemente dirci che è andato tutto bene e che, dunque, non vi è più motivo per essere tristi. Al contrario, ci troviamo a sperimentare le emozioni dolorose, prima inibite perché troppo minacciose e i relativi pensieri, cercando di padroneggiarli.

Inoltre, non siamo consapevoli di inibire le nostre emozioni quando ci sentiamo in pericolo e non siamo consapevoli neppure del fatto che ci concediamo di provarle quando ci sentiamo al sicuro; quindi, anche senza esserne consapevoli, noi esercitiamo un controllo sulla nostra vita mentale: un controllo finalizzato a permetterci il migliore adattamento alla realtà e il maggiore senso di sicurezza possibile.

Infine, dall’analisi di questo piccolo fenomeno quotidiano possiamo anche vedere che siamo in grado di esercitare inconsciamente funzioni mentali superiori complesse, come valutare la realtà, pianificare le nostre azioni, valutarne i possibili esiti e agire di conseguenza. Ad esempio, valutiamo in che misura siamo in condizioni di sufficiente sicurezza per fare qualcosa e le possibili conseguenze della nostra iniziativa su noi e sugli altri: decidiamo se intraprenderla o meno a seconda degli esiti di questa valutazione. Ad esempio, lo studente impegnato nella preparazione di un esame avvertirà la stanchezza accumulata solo dopo aver sostenuto la prova, perché avvertirla prima potrebbe ostacolarlo nella prosecuzione del suo studio; allo stesso modo, una persona che rischia un incidente avverte la paura solo dopo averlo evitato, perché a quel punto non è più necessario che sia del tutto lucida.

Fin da quando siamo piccoli, quindi, cerchiamo consciamente e inconsciamente condizioni di sicurezza e facciamo tutto quanto è in nostro potere per padroneggiare i nostri problemi e adattarci alla realtà. A questo scopo, una delle cose di cui necessitiamo è sviluppare un insieme di conoscenze affidabili su di essa, prima di tutto sulle relazioni con gli altri e sulle regole da rispettare per vivere. Un insieme di credenze, dunque, sulla realtà e sulla moralità che ci funga da mappa.

Credenze e credenze patogene

Per adattarsi al proprio ambiente, l’uomo deve formarsi un insieme di conoscenze affidabili sul mondo, che Weiss ha denominato credenze. Le credenze non sono semplici ipotesi o idee astratte, bensì costituiscono la visione delle realtà di una persona, l’insieme di convinzioni che la orientano e le permettono di fare previsioni. Le credenze fungono da guida per il comportamento, organizzano il modo in cui percepiamo la realtà e sono alla base degli affetti che proviamo nelle varie situazioni di vita. Sono dunque centrali per la strutturazione della personalità.

Esse si formano sin dall’infanzia e derivano dalle esperienze che viviamo con le nostre figure significative e dai loro insegnamenti: ciò che un bambino sperimenta nel proprio ambiente di crescita, ciò che osserva e impara dagli adulti per lui importanti, diventa ciò che per lui è la realtà e come per lui le cose devono andare; in questo senso, le credenze hanno anche un valore morale.

Per esempio, un bambino che cresce in un ambiente in cui i genitori valorizzano ed elogiano l’autonomia e l’indipendenza, soprattutto nelle persone di sesso maschile, potrebbe sviluppare la credenza che un “vero uomo” risolve sempre i propri problemi da solo senza mai chiedere aiuto: è così che si deve comportare.

Le nostre credenze, consce o inconsce che siano, rappresentano dunque la nostra realtà e ci guidano continuamente. Esse tendono ad auto-alimentarsi perché la nostra mente è naturalmente predisposta, per un principio di economia cognitiva dal valore fondamentalmente adattivo, a selezionare inconsciamente i dati che le confermano e trascurare o distorcere quelli che le disconfermano (bias di conferma). E’ infatti più utile avere una visione stabile della realtà, per quanto imperfetta, che una visione più precisa ma continuamente mutevole.

Le credenze di una persona possono essere definite patogene quando al perseguimento di un obiettivo sano e piacevole associano un pericolo, per sé o i propri cari, che può essere interno (per esempio, un sentimento di vergogna o di colpa) oppure esterno (un evento negativo). Un obiettivo sano è qualcosa che ognuno di noi potrebbe e/o vorrebbe raggiungere e può essere concreto (trovare un lavoro adeguato alle proprie capacità, riuscire a laurearsi, interrompere un rapporto che ci fa soffrire) oppure astratto (sentire di meritare cure e amore, avere una buona stima di sé, sentirsi meno ansiosi, ecc.).

Le credenze patogene si sviluppano nell’infanzia come tentativo di adattarsi a un ambiente traumatico, ovvero a “traumi da shock” (eventi imprevisti e/o gravi come la morte di un proprio caro, il divorzio dei genitori) o a “traumi da stress”, cioè situazioni o modalità relazionali problematiche che si ripetono nel tempo, come un rapporto genitore-figlio caratterizzato da continue svalutazioni e vessazioni o da una sistematica mancanza di sintonia e comprensione.

Le credenze patogene sono in genere inconsce ed esprimono inferenze, fatte nell’immediato o a posteriori, sulle situazioni traumatiche che ci si è trovati a vivere, spesso logicamente scorrette a causa delle caratteristiche del funzionamento psichico infantile: più egocentrico, meno logico, più iper-generalizzante e onnipotente di quello adulto. Per esempio, un bambino con una madre depressa e distaccata potrebbe pensare che la colpa di tale disinteresse sia da attribuire alla sua mancanza di valore, invece che alla patologia della mamma.

Le credenze patogene sono dunque funzione del bisogno di avere una rappresentazione affidabile della realtà e di preservare il proprio legame con le figure di riferimento, genitori e fratelli in primis, evitando di mettere in discussione la loro bontà, forza e saggezza.

Le credenze, patogene e non, oltre che agli affetti che suscitano, si associano anche a strategie comportamentali che possono essere di quattro tipi:
(1) la compiacenza con le richieste, implicite ed esplicite, degli oggetti traumatici, espresse da queste stesse credenze;
(2) l’identificazione con questi oggetti traumatici, motivata dal bisogno di padronanza o dai sensi di colpa;
(3) la ribellione rispetto al contenuto di queste credenze, in genere associata a forti sensi di colpa;
(4) la disidentificazione rispetto agli oggetti traumatici, anch’ essa associata a forti sensi di colpa, in particolare del sopravvissuto e di separazione/slealtà.
Le credenze patogene, i relativi affetti e le strategie comportamentali danno vita agli “schemi patogeni” nucleari della psicopatologia.

Le credenze e gli schemi, patogeni o meno, sono funzione di scopi adattivi. Tuttavia, ciò che è adattivo per un bambino nel proprio ambiente di sviluppo, può non esserlo più quando quel bambino diventa grande o quando le circostanze in cui si trova a vivere, o i suoi bisogni, cambiano. La bambina che pensa di essere priva di valore perché così si è spiegata il disinteresse della madre, per esempio, quando arriva a scuola può avere difficoltà a studiare, a intervenire in classe o fare amicizia proprio perché pensa di non valere nulla: queste difficoltà possono finire per riconfermare la sua sensazione di essere priva di valore. Così, associando obiettivi sani a situazioni di pericolo, le credenze patogene finiscono per essere la base di inibizioni, sintomi e sofferenza.

I test

Come abbiamo visto, le credenze patogene fanno sì che il perseguimento di obiettivi sani e piacevoli sia vissuto come pericoloso: per tale motivo il senso di sicurezza e le capacità di padronanza della persona diminuiscono. Di conseguenza, le persone mettono alla prova ogni volta che possono le loro credenze patogene nella speranza di disconfermarle. Queste messe alla prova si chiamano test. I test sono azioni di prova, pianificate in genere inconsciamente, il cui obiettivo è comprendere se il pericolo prefigurato da una o più credenze patogene è ancora attuale.

Un esempio di vita quotidiana può facilitare la comprensione di questo fenomeno: una donna teme che una persona a cui tiene, per esempio il suo compagno, non sia interessato a comprenderla e la trovi pesante, ed è triste per questo. Quando il compagno le chiede se c’è qualcosa che non va, lei può rispondergli: “No, nulla”, guardandolo con un’espressione triste. Nel dargli quella risposta la donna spera, più o meno consapevolmente, che il compagno insista e le chieda nuovamente se c’è qualcosa che non va, perché questa insistenza sarebbe la prova che non la trova davvero pesante e poco interessante. Se il compagno insiste, infatti, la donna dopo un po’ si rilassa e si apre; altrimenti, ci resta male e si arrabbia.

Dato che le credenze patogene si formano a partire da situazioni e relazioni problematiche dell’infanzia, che in genere coinvolgono genitori e fratelli, possiamo anche pensare ai test come modi per vedere se le persone che oggi sono per noi importanti ci proporranno relazioni simili a quelle che ci hanno fatto soffrire nel corso della vita. Per vedere se possiamo fidarci e provare a perseguire i nostri obiettivi sani e piacevoli o saremo ri-traumatizzati.

La donna che teme di essere pesante e poco interessante, per esempio, può aver sviluppato questa credenza perché si è sentita pesante e poco interessante per la madre, che in realtà era assorbita e appesantita dal proprio lavoro. Pertanto, quando incontra delle persone che inizia a sentire importanti per lei, può cercare, nella relazione con loro, una disconferma dell’aspettativa che l’altro la trovi noiosa e faticosa. E per questo le propone inconsciamente dei test.

Ma in quanti modi possiamo mettere alla prova le nostre credenze patogene?

La Control Mastery Theory ha identificato tre grandi categorie di test: (1) i test di transfert, (2) i test per capovolgimento da passivo in attivo e (3) i test osservativi.

Quando propone un test di transfert, una persona si comporta in modo da facilitare la riproposizione delle relazioni traumatiche antiche nei suoi rapporti del presente, sperando che l’altro risponda in un modo diverso da quello degli oggetti traumatici. Come nell’esempio precedente, la donna dirà di non avere niente, sperando che il compagno si accorga che ciò non è vero e insista, mostrando così il suo interesse per lei e il suo coinvolgimento nel rapporto, cioè dimostrandosi diverso da sua madre. Questo è un test di transfert per compiacenza. Questo tipo di test si definisce “di transfert” perché la donna “trasferisce” sul compagno l’immagine e il ruolo della madre; la specifica, “per compiacenza”, sta a indicare che il comportamento assunto è conforme alla credenza patogena: in questo caso, di appesantire l’altro e non meritare interesse Esistono anche test di transfert per ribellione: questa stessa donna, per esempio, potrebbe pretendere attenzione e interesse assoluto da parte del compagno, ribellandosi così alla sua credenza patogena, cioè non compiacendo ciò che immaginava la madre potesse volere, e sperando che il compagno la assecondi, disconfermando così la sua credenza patogena di non meritare interesse e comprensione. I test di transfert per ribellione, sfidando deliberatamente una credenza patogena, mettono in discussione l’autorità delle figure di riferimento dell’infanzia, provocando così pressanti sensi di colpa, per quanto inconsci. Il bisogno di espiazione che ne deriva spiega la quasi onnipresente presenza di una componente autopunitiva in questo tipo di test. Essi infatti tendono generalmente a suscitare una tipologia di risposta opposta a quella necessaria per disconfermare la credenza patogena che si sta testando. Per tornare all’esempio precedente, la pretesa di attenzione e interesse assoluto della donna potrebbe facilmente indurre nel compagno un rifiuto, o comunque una reazione di rabbia o fastidio.

Se invece propendesse per un test da passivo in attivo per compiacenza, questa donna potrebbe trattare con disinteresse o irritazione il compagno qualora quest’ultimo si mostrasse bisognoso di attenzioni e cure, sperando che lui le mostri che è possibile affrontare un trattamento di questo tipo senza esserne troppo turbati. Nei test da passivo in attivo per compiacenza, infatti, ci identifichiamo con le persone che ci hanno fatto soffrire e riproponiamo con altri il loro comportamento, sperando che questi altri possano essere dei modelli di ruolo che ci aiutino a sviluppare capacità di cui abbiamo bisogno per adattarci meglio. Come i test di transfert, pure quelli da passivo in attivo possono essere fatti anche per ribellione; in questo caso, al posto dell’identificazione con il comportamento o l’atteggiamento traumatizzante del genitore ci troviamo al cospetto di una controidentificazione. Utilizzando ancora una volta l’esempio in questione, un test da passivo in attivo per ribellione potrebbe manifestarsi per mezzo di un atteggiamento estremamente accuditivo e comprensivo rispetto a qualsiasi esigenza del compagno, atteggiamento inconsciamente finalizzato a vedere quest’ultimo felice, e a dimostrare così a se stessa che aveva il diritto, e aveva ragione, a desiderare che i suoi bisogni di attenzione fossero appagati. La componente autopunitiva dei test da passivo in attivo per ribellione si manifesta nel fatto che inducono la persona ad adottare comportamenti e atteggiamenti rigidi, spesso svincolati dalle esigenze reali dell’altra persona e che altrettanto spesso implicano sofferenze e rinunce per il soggetto. Ricorrendo sempre allo stesso esempio, non è affatto detto che il compagno di questa ipotetica donna abbia sempre bisogno di, o meriti sempre, accudimento e protezione, ed essere sempre accudenti e comprensivi implica dover mettere da parte spesso le proprie esigenze.

Infine, i test osservativi implicano semplicemente il desiderio di disconfermare le proprie credenze patogene osservando gli atteggiamenti o i comportamenti di persone che non sembrano esserne afflitte o che sembrano in grado di contrastarle. La donna in questione, ad esempio, potrebbe osservare attentamente in che modo una sua amica chiede ascolto o comprensione al compagno, sperando così di apprendere strategie più efficaci per contrastare la propria credenza patogena.

Il concetto di test rende dunque comprensibili molti comportamenti apparentemente eccessivi, strani o paradossali, assunti sia in psicoterapia sia nei rapporti della nostra vita quotidiana, e ci permette di osservarli da una prospettiva adattiva: sono tentativi forti di disconfermare le nostre credenze patogene nella relazione con un’altra persona. Hanno dunque una finalità sana, anche se tendono ad apparire illogici o insensati e a suscitare emozioni intense e risposte più o meno immediate.

Quando la risposta dell’altro “supera” il test, la persona in genere diventa più serena e rilassata, meno tesa, si adopera più attivamente per realizzare i propri obiettivi sani, si apre di più e diventa più coraggiosa. Viceversa, quando il test non viene superato la persona diventa più ansiosa, si deprime e si blocca. Da ciò consegue che un elemento centrale di qualsiasi tipo di psicoterapia, e per la verità di qualsiasi tipo di relazione che intenda essere di aiuto, è la capacità di superare i test a cui l’altra persona ci sottopone consciamente o inconsciamente. Ci sono diverse ricerche empiriche che dimostrano come l’esito di una terapia dipenda dalla capacità del clinico di superare i test del paziente; ciò non significa però che, superando uno o pochi test, le credenze patogene vengano disconfermate stabilmente o perdano in breve tempo la loro forza. Perché?

In primo luogo perché, come abbiamo visto, le credenze patogene sono state sviluppate nel corso dell’età evolutiva per proteggersi dai pericoli e padroneggiare la realtà: metterle alla prova significa esporsi a pericoli temuti. In secondo luogo, essendo nate nel contesto delle relazioni con le figure di riferimento dell’infanzia, le credenze patogene hanno per la persona la stessa autorità che i genitori hanno per un bambino, ragion per cui metterle in discussione espone a forti sensi di colpa interpersonali.

I sensi di colpa interpersonali

La Control Mastery Theory distingue il senso di colpa conscio da quello inconscio. Il primo permette alle persone di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, è influenzato dal contesto culturale e sociale dell’individuo e dall’educazione ricevuta durante l’infanzia. Essendo accessibile a un livello di consapevolezza, può essere pensato, contestualizzato e, nel caso, mitigato dall’esperienza dell’individuo. Al contrario, il senso di colpa inconscio deriva da credenze patogene sviluppate in conseguenza di traumi da shock e da stress vissuti durante l’infanzia.

Il senso di colpa inconscio, al contempo, contribuisce a mantenere le credenze patogene da cui origina ed è sostenuto dall’immaturità cognitiva ed emotiva del bambino, in particolare dal carattere concreto, magico, idealizzante e iper-generalizzante del suo pensiero e dalla poca esperienza che lo caratterizza e che gli fa percepire i propri genitori come la massima fonte di autorità. Durante l’infanzia il bambino è completamente dipendente dai suoi genitori, può sentirsi al sicuro solo se sente che questi lo amano e lo proteggono, sono forti e sono felici. Non può permettersi di pensare che sbagliano, che sono deboli o cattivi, perché la sua intera esistenza diverrebbe precaria. Qualsiasi comportamento susciti dolore, rabbia o tristezza nelle figure di accudimento provoca nel bambino profondi vissuti di colpa. Ricerche recenti mostrano come, fin da subito, gli individui siano predisposti a empatizzare con gli altri esseri umani; infatti, nel corso dell’evoluzione questa capacità si è dimostrata altamente adattiva: l’empatia riduce i comportamenti aggressivi favorendo quelli pro-sociali, che promuovono la sopravvivenza dei gruppi e degli individui che ne fanno parte. In quest’ottica, il senso di colpa inconscio deriva dall’amore che il bambino prova per i genitori e dalla necessità di sentire che i caregiver a loro volta lo amano, lo sostengono e lo proteggono. Qualsiasi comportamento susciti in loro dolore o disapprovazione provoca nel bambino vissuti di colpa angosciosi. Poiché sono inconsci e derivano da esperienze traumatiche sperimentate durante l’infanzia, le esperienze reali difficilmente riescono a mitigarli e modificarli. Per questo motivo, anche in età adulta il raggiungimento di un successo personale e relazionale può comportare forti vissuti di angoscia e depressione per alcune persone, che di conseguenza boicottano la propria realizzazione personale attraverso comportamenti auto-sabotanti, gesti autopunitivi e vissuti emotivi dolorosi.

La Control Mastery Theory individua cinque tipi di senso di colpa inconscio: quello da separazione/slealtà, quello del sopravvissuto, quello da responsabilità onnipotente, quello da burdening e quello da odio di sé. Il senso di colpa da separazione/slealtà deriva dalla credenza secondo cui se ci separiamo da una persona cara questa ne soffrirà, laddove la separazione può essere intesa come distanza fisica ma anche come differenziazione psicologica. Le persone possono dunque sentirsi in colpa quando si allontanano dai propri familiari o quando sviluppano idee, credenze e valori diversi da quelli dei propri cari. Questo senso di colpa può dunque promuovere atteggiamenti di compiacenza volti a mantenere la vicinanza con i propri cari o di identificazione con i comportamenti, spesso disfunzionali, dei propri familiari. Il senso di colpa del sopravvissuto si basa sulla credenza patogena secondo cui avere più successo, fortuna o qualità di una persona cara sia ingiusto, come se il benessere, il successo e le capacità di uno si basassero sull’infelicità o l’incapacità di un altro. I successi personali vengono quindi vissuti con una forte angoscia, che si può cercare di tenere a bada attraverso condotte autopunitive e comportamenti auto-sabotanti. Il senso di colpa da responsabilità onnipotente si basa invece sulla credenza secondo cui si ha il potere e il dovere di rendere felici e fare star bene le persone care. Gli individui mossi da questo senso di colpa reputano che, se venissero meno a questo compito, sarebbero cattivi ed egoisti e qualcosa di terribile accadrebbe ai loro familiari. Questo senso di colpa può quindi dare vita ad atteggiamenti sacrificali dovuti all’incapacità dell’individuo di far valere i propri bisogni e diritti, vissuti come qualcosa che può ledere il benessere di altri significativi. Il senso di colpa da burdening è espressione della credenza patogena per la quale comunicare ciò di cui si ha bisogno e quello che si prova significa appesantire le persone amate.
Spesso le persone affette da questo tipo di senso di colpa oscillano tra il mostrarsi per nulla bisognose al fare richieste continue e pressanti alle persone amate; tra l’essere accoglienti e disponibili rispetto ai bisogni altrui, al mostrarsi appesantite e rifiutati rispetto alle necessità e ai sentimenti degli altri. Questo tipo di senso di colpa trae origine da esperienze infantili di trascuratezza o in cui il soggetto ha sentito di essere “troppo” per dei caregiver già in difficoltà. Infine, il senso di colpa da odio di sé è legato alla convinzione di non valere nulla e di non meritare l’amore, il sostegno, la comprensione, la protezione e il rispetto degli altri. Questo senso di colpa deriva da esperienze infantili con genitori maltrattanti, svalutanti o trascuranti che hanno portato il bambino, e in seguito l’adulto, a pensare di essere intrinsecamente sbagliato. Non potendo mettere in discussione la loro autorità e benevolenza, il bambino finisce per identificarsi con l’immagine di “cattivo”, “fallito”, “brutto” e “inadeguato” che i genitori o altre persone care gli hanno rimandato e mette in atto una serie di comportamenti che finiscono per confermare questa immagine di sé.

Le credenze patogene alla base di questi sensi di colpa vengono messe alla prova, come tutte le altre credenze patogene, nel corso di una terapia e delle relazioni importanti: superare i test relativi a queste credenze significa quindi ridurre progressivamente i sensi di colpa.

Obiettivi sani, ostacoli (credenze patogene e sensi di colpa), traumi e test sono tra gli elementi costitutivi del piano inconscio con cui ogni paziente inizia una psicoterapia.

Il piano inconscio del paziente

La Control Mastery Theory sottolinea il ruolo attivo che ogni paziente ha all’interno del processo psicoterapeutico: ognuno di noi giunge in terapia motivato a superare i suoi problemi e si adopera inconsciamente per questo. Durante i primi incontri cerca di fornire al terapeuta tutte le informazioni che possano aiutarlo a comprendere gli obiettivi che vuole raggiungere con la terapia, le credenze patogene che lo ostacolano, i sensi di colpa ad esse associati e i traumi da cui esse sono originate. Inoltre, cerca di far capire al terapeuta ciò di cui ha bisogno per stare bene: l’atteggiamento da tenere con lui, i modi con cui può aiutarlo a disconfermare le sue credenze patogene, cioè che test gli farà e in che modo vorrà che il terapeuta gli risponda, e le acquisizioni (insight) a cui è utile che egli giunga per riuscire a padroneggiare i suoi problemi e a raggiungere i suoi obiettivi.

Il piano articola quindi le modalità e la successione con cui il paziente testerà le sue credenze patogene basandosi su considerazioni di sicurezza: in genere, le credenze patogene che sente come più minacciose verranno messe alla prova solo quando si sentirà sufficientemente al sicuro all’interno della relazione terapeutica. Il piano del paziente, pur essendo abbastanza preciso, non è però una mappa fissa, ma una strategia relativamente flessibile per il raggiungimento dei propri obiettivi e la disconferma delle proprie credenze patogene. Infatti, il paziente può modulare il proprio piano in base alle caratteristiche e alle tecniche del terapeuta o ai cambiamenti che intercorrono nella sua vita con il progredire della terapia.

Lo psicoterapeuta deve aiutare il paziente a realizzare il suo piano, deve essere sempre dalla sua parte: deve affiancarlo nel raggiungimento dei suoi obiettivi e nel superamento delle sue credenze patogene. Pertanto, è indispensabile che comprenda il piano del paziente e decida come comportarsi con lui e come intervenire in base a questo. Una buona terapia non può quindi essere che caso-specifica, perché ogni paziente ha obiettivi e credenze differenti e modi diversi per metterle alla prova.

La formulazione del piano è quindi il primo passo che il clinico deve compiere quando prende in carico un paziente. Nei primi colloqui, la storia che il paziente presenta della sua vita, delle sue relazioni, dei suoi problemi e dei suoi sintomi e il modo con cui si rapporta al terapeuta e reagisce ai suoi interventi forniranno le informazioni utili a individuare gli elementi costitutivi del piano. Per valutare l’accuratezza delle sue inferenze, e modificarle se necessario, il terapeuta dovrà prestare attenzione alle risposte del paziente ai suoi interventi. Infatti, un intervento contrario al piano del paziente porterà quest’ultimo ad allontanarsi dai suoi obiettivi, a essere più ansioso e depresso, meno audace e meno capace di insight. Al contrario, un intervento consono al piano porterà il paziente a sentirsi più sicuro e rilassato, a essere più audace, più capace di insight e ad avvicinarsi di più ai suoi obiettivi. Numerose ricerche empiriche hanno dimostrato che la congruenza degli interventi del terapeuta con il piano del paziente favorisce il buon esito del trattamento.

Interpretazioni e comunicazioni efficaci

Nell’ottica della Control Mastery Theory l’interpretazione è uno dei molti strumenti che il terapeuta può utilizzare per aiutare il paziente a disconfermare le sue credenze patogene e a raggiungere i suoi obiettivi. Come qualsiasi altra comunicazione, atteggiamento o intervento, l’interpretazione ha quindi la funzione sovraordinata di far sentire il paziente al sicuro e sostenerlo nel perseguimento del suo piano.

Un’altra funzione delle comunicazioni del terapeuta è quella di aiutare il paziente a comprendere quali sono le situazioni e relazioni antiche che hanno dato origine alle sue credenze patogene e hanno rafforzato i suoi sensi di colpa e in che modo sviluppare quelle credenze lo abbia aiutato ad adattarsi al suo ambiente di vita del passato. Promuovendo un lavoro ricostruttivo di questo tipo, le interpretazioni alleviano la sofferenza del paziente, sostenendolo nei tentativi di padroneggiare i suoi problemi, perché gli chiariscono che le credenze che ha sviluppato a partire da questi traumi non hanno nulla a che vedere con la realtà attuale e non sono espressione di qualcosa di sbagliato e presente dentro di lui. Di conseguenza un’interpretazione sarà tanto più efficace quanto più è in linea con il piano del paziente (pro-plan).

Il terapeuta può utilizzare le interpretazioni per superare i test del paziente, demistificare le sue credenze patogene e normalizzare i suoi problemi. Per quanto il paziente sia in grado di fare progressi e di acquisire insight autonomamente, se il terapeuta l’aiuta a sentirsi al sicuro, le interpretazioni costituiscono in ogni caso un utile strumento per agevolarlo nel generalizzare quanto ha compreso di sé in terapia in una forma verbale ed esplicita, cosicché possa utilizzare le nuove consapevolezze nella sua vita quotidiana.

E’ infine importante tenere presente che non è l’accordo esplicito del paziente il criterio più affidabile per valutare la bontà di un’interpretazione ma, come per qualsiasi altro intervento del terapeuta, la reazione che essa induce nel paziente: se si mostra più sollevato, più consapevole e più coraggioso nel testare il terapeuta, il clinico può dedurre di essere sulla strada giusta. Ancor di più, si può essere relativamente sicuri della bontà di una linea interpretativa se, entro qualche settimana, il paziente mostra segni di progresso.

Ad ogni modo, possono esserci pazienti che non tollerano l’interpretazione o che non la tollerano in una particolare fase della terapia, perché l’avvertono come la riproposizione di comportamenti maltrattanti, giudicanti o invadenti subiti nel passato. In questo caso, il terapeuta dovrà utilizzare interventi diversi, superare i test del paziente o avere il giusto atteggiamento per aiutarlo a sentirsi al sicuro – è infatti questa la sua priorità. Se il paziente sperimenta un autentico senso di sicurezza farà da solo gran parte del lavoro.

Nell’ottica della Control Mastery Theory l’interpretazione è uno dei molti strumenti che il terapeuta può utilizzare per aiutare il paziente a disconfermare le sue credenze patogene e a raggiungere i suoi obiettivi. Come qualsiasi altra comunicazione, atteggiamento o intervento, l’interpretazione ha quindi la funzione sovraordinata di far sentire il paziente al sicuro e sostenerlo nel perseguimento del suo piano.

Un’altra funzione delle comunicazioni del terapeuta è quella di aiutare il paziente a comprendere quali sono le situazioni e relazioni antiche che hanno dato origine alle sue credenze patogene e hanno rafforzato i suoi sensi di colpa e in che modo sviluppare quelle credenze lo abbia aiutato ad adattarsi al suo ambiente di vita del passato. Promuovendo un lavoro ricostruttivo di questo tipo, le interpretazioni alleviano la sofferenza del paziente, sostenendolo nei tentativi di padroneggiare i suoi problemi, perché gli chiariscono che le credenze che ha sviluppato a partire da questi traumi non hanno nulla a che vedere con la realtà attuale e non sono espressione di qualcosa di sbagliato e presente dentro di lui. Di conseguenza un’interpretazione sarà tanto più efficace quanto più è in linea con il piano del paziente (pro-plan).

Il terapeuta può utilizzare le interpretazioni per superare i test del paziente, demistificare le sue credenze patogene e normalizzare i suoi problemi. Per quanto il paziente sia in grado di fare progressi e di acquisire insight autonomamente, se il terapeuta l’aiuta a sentirsi al sicuro, le interpretazioni costituiscono in ogni caso un utile strumento per agevolarlo nel generalizzare quanto ha compreso di sé in terapia in una forma verbale ed esplicita, cosicché possa utilizzare le nuove consapevolezze nella sua vita quotidiana.

E’ infine importante tenere presente che non è l’accordo esplicito del paziente il criterio più affidabile per valutare la bontà di un’interpretazione ma, come per qualsiasi altro intervento del terapeuta, la reazione che essa induce nel paziente: se si mostra più sollevato, più consapevole e più coraggioso nel testare il terapeuta, il clinico può dedurre di essere sulla strada giusta. Ancor di più, si può essere relativamente sicuri della bontà di una linea interpretativa se, entro qualche settimana, il paziente mostra segni di progresso.

Ad ogni modo, possono esserci pazienti che non tollerano l’interpretazione o che non la tollerano in una particolare fase della terapia, perché l’avvertono come la riproposizione di comportamenti maltrattanti, giudicanti o invadenti subiti nel passato. In questo caso, il terapeuta dovrà utilizzare interventi diversi, superare i test del paziente o avere il giusto atteggiamento per aiutarlo a sentirsi al sicuro – è infatti questa la sua priorità. Se il paziente sperimenta un autentico senso di sicurezza farà da solo gran parte del lavoro.

Scegliere il giusto atteggiamento

Secondo la Control Mastery Theory, e in linea con i risultati della ricerca empirica sulle psicoterapie, ciò che rende davvero possibile il cambiamento è la relazione che si instaura tra paziente e terapeuta. Una relazione ovviamente modellata sulle esigenze di quello specifico paziente, cioè in grado di fornirgli proprio quel tipo di esperienza che, in accordo con il suo piano inconscio, lo aiuti a disconfermare le credenze patogene che gli impediscono di raggiungere i suoi obiettivi sani e realistici.

Come abbiamo visto, la relazione con il clinico si costruisce attraverso le sue comunicazioni in seduta, il modo in cui risponde ai test del paziente e, più in generale, attraverso l’atteggiamento che il clinico assume, cioè attraverso il tono, il modo e i tempi con cui comunica al paziente, o semplicemente lo ascolta, e gli affetti che manifesta o non manifesta. E’ infatti l’atteggiamento del terapeuta che rende l’esperienza terapeutica “emotivamente correttiva” e quindi autenticamente trasformativa.

Come abbiamo visto però, ogni persona ha bisogno di esperienze diverse per sentirsi davvero al sicuro e arriverà in terapia con un proprio piano per superare le credenze patogene che lo ostacolano nella vita. Ciò significa che non esiste un atteggiamento ottimale per tutti pazienti e in sé “terapeutico”, ma la bontà e l’efficacia di un certo modo di porsi e interagire in seduta dipenderà dal piano del paziente, da quali siano le sue credenze patogene, i modi in cui vorrà vederle disconfermate, le esperienze relazionali antiche che lo hanno traumatizzato e gli obiettivi che desidera essere aiutato a raggiungere.

Proprio per questa ragione, la scelta dell’atteggiamento non deve solo essere caso-specifica, ma anche momento-specifica, ossia deve dipendere dal tipo di credenza patogena su cui il paziente sta lavorando in quel momento, e, ovviamente, dal tipo di test attraverso cui lo sta facendo. Ciò significa che, anche con lo stesso paziente in momenti diversi della terapia, o addirittura della stessa seduta, l’atteggiamento più giusto può essere diverso.

Considerata questa grande variabilità rispetto la scelta dell’atteggiamento ottimale da assumere, è possibile individuare due indicazioni di massima:

·         il clinico deve assumere un atteggiamento diverso da quello avuto dai genitori traumatici e che hanno dato vita alla credenze patogene;

·         assumere un atteggiamento diverso da quello assunto dal paziente all’interno della relazione con i genitori traumatici.

Seguendo queste indicazioni generali, il clinico potrà non solo offrire al paziente il contesto relazionale ottimale per mettere alla prova e disconfermare le credenze che lo ostacolano, ma gli fornirà anche l’esempio di un modo di essere diverso, un aiuto umano concreto e reale, la speranza e la fiducia che esista anche un altro modo di vivere e di amare.

Da quanto detto si comprende chiaramente che il terapeuta non potrà mai essere neutrale in senso classico, ma dovrà parteggiare e sostenere sempre le parti del paziente, che lavora per disconfermare le credenze patogene, fornendogli occasioni, reazioni e risposte diverse da quelle che lo hanno traumatizzato o che da bambino si è sentito costretto ad assumere. E’ proprio questo il motivo per cui i pazienti sono molto interessati a capire quale sia l’atteggiamento del terapeuta in merito alle loro credenze patogene. Le sue reazioni alle loro comunicazioni e, in generale, il suo modo di essere, rappresenteranno le occasioni attraverso cui mettere alla prova quell’intricato sistema di convinzioni e affetti da cui sono ostacolati e da cui, appunto, si vogliono liberare. Il paziente, proprio per questo motivo, leggerà l’atteggiamento del clinico in funzione dei suoi obiettivi, delle sue credenze e dei suoi sensi di colpa. Dunque non lo percepirà mai in modo “obiettivo”, ma interpreterà ciò che gli dice, e il modo in cui glielo dice, alla luce degli elementi del suo piano. Un paziente che ha bisogno di sentirsi legittimato a ribellarsi a un genitore controllante e autoritario probabilmente ascolterà gli interventi del clinico principalmente per capire se lo sostiene nel suo diritto a emanciparsi o se invece, come i genitori, anche il terapeuta tenta di imporsi su di lui. Così come un paziente oppresso dalla responsabilità onnipotente cercherà di capire, essenzialmente, se è davvero possibile, senza biasimo o abbandoni, rinunciare a farsi carico dell’infelicità altrui.

Con alcuni pazienti, quelli più gravi, con fragilità narcisistiche rilevanti e afflitti da un forte odio di sé, l’atteggiamento diventa addirittura l’unico strumento terapeutico possibile, perché spesso tendono a leggere qualsiasi tipo di intervento alla luce delle loro credenze patogene, per cui qualsiasi sottolineatura, confrontazione o anche solo timido tentativo di farli riflettere su di sé e sui loro comportamenti viene vissuto come un’ulteriore critica e messa in discussione, come una ritraumatizzazione. In alcuni casi, anche commenti empatici e interventi volti ad avvicinarli al modo in cui si sono sentiti sono respinti con vigore, perché recepiti come forme di commiserazione o conferme del proprio modo di sentire catastrofico. In questi casi, l’atteggiamento non è solo uno degli strumenti terapeutici, e non è neanche solo quello più importante, ma diventa addirittura l’unico strumento possibile. Queste terapie, definite appunto terapie “per mezzo dell’atteggiamento”, possono essere molto lente e molto lunghe ma, in alcuni casi, sono le uniche possibili.

Il coaching

In ottica Control Mastery Theory, con il termine “coaching behavior” si fa riferimento a tutte quelle comunicazioni, atteggiamenti e comportamenti che i pazienti mettono in atto nel corso della terapia per istruire, guidare e aiutare il clinico a comprendere gli elementi centrali del loro piano inconscio, ossia quali sono i loro obiettivi, cosa gli impedisce di raggiungerli (credenze patogene e sensi di colpa) e come vogliono disconfermare le credenze patogene che li ostacolano (test). Il loro scopo è favorire attivamente la costruzione di una relazione in cui si sentano al sicuro e possano essere aiutati.

I comportamenti e le comunicazioni di coaching possono essere diretti, chiari ed espliciti, oppure indiretti, impliciti e allusivi, sino a diventare paradossali. Ma da cosa dipende il grado di immediatezza e chiarezza delle comunicazioni e dei comportamenti di coaching?

Quando siamo consapevoli dei sentimenti, pensieri e motivazioni che sottendono i nostri comportamenti, riusciamo ad esprimerli in modo chiaro e diretto, senza fare giri di parole, ma per farlo dobbiamo sentirci al sicuro.

Ciò significa che uno stesso paziente può comunicare in modo diretto alcuni aspetti del suo piano, ma suggerirci in modo implicito e indiretto quelli che percepisce come più minacciosi per sé o per la relazione con noi. Un paziente può dire in modo esplicito ciò di cui ha bisogno solo se è abbastanza certo del fatto che il clinico lo capirà e risponderà in modo adeguato alle sue comunicazioni, ma può essere vero anche l’opposto.

I pazienti possono fare coaching in modo più vigoroso, chiaro e diretto anche quando hanno bisogno di acquisire maggior sicurezza nella relazione col clinico, come se si dicessero: “Visto che non mi stai capendo, te lo dico con la massima chiarezza!“.

Anche se le attività di coaching possono presentarsi in qualsiasi momento, possiamo identificare tre momenti della terapia in cui tendono a intensificarsi: all’inizio della terapia, prima, durante e dopo un test, e quando si desidera un cambiamento della relazione terapeutica.

All’inizio della terapia, i pazienti fanno coaching per preparare il clinico a lavorare con loro, per comunicargli il loro piano inconscio. Alcune ricerche empiriche (O’Connor et al. 1994) hanno dimostrato che, nelle prime sedute di una psicoterapia, i pazienti sono più consapevoli dei propri problemi e hanno più insight di quello che mostrano in seguito. L’attività di coaching si intensifica anche quando i pazienti si preparano a testare il terapeuta, durante un test e dopo la sua risoluzione. Questo perché i test rappresentano momenti delicati per i pazienti, quelli in cui mettono alla prova le proprie credenze patogene nella speranza che il terapeuta le disconfermi. Da questo punto di vista, prima di un test i pazienti fanno coaching per aumentare le probabilità che il clinico superi il test. Durante il suo svolgimento, lo fanno per incoraggiare quegli interventi che sono compatibili col piano e per indicare al terapeuta quando sta sbagliando, per fargli capire che deve modificare i suoi atteggiamenti, comportamenti e comunicazioni perché rischia di confermare le loro credenze patogene. In alternativa, dopo un test i pazienti possono comunicare al terapeuta che lo hanno superato, informandolo sull’utilità dei suoi interventi e incoraggiandolo a continuare così, o per fargli capire che è sulla strada giusta. Infine, l’attività di coaching può intensificarsi quando un paziente ha bisogno che la relazione terapeutica cambi. Capita spesso, per esempio, che i pazienti, dopo aver disconfermato una credenza patogena e raggiunto un loro obiettivo, vogliano iniziare a lavorare per raggiungerne altri e, in alcuni casi, per farlo hanno bisogno che il terapeuta modifichi i suoi atteggiamenti, comportamenti e comunicazioni. Il coaching può essere utilizzato per aiutarlo a far questo.

In sintesi, i pazienti fanno da coach ai loro clinici per aiutarli a comprendere quali siano i loro obiettivi e le loro credenze, in che modo vogliano essere aiutati, quale atteggiamento terapeutico gli sia più utile e cosa abbiano bisogno di comprendere della propria vita mentale e della propria storia. Possono farlo sempre, ma lo fanno in modo particolare all’inizio del trattamento, prima, durante e dopo test importanti e quando hanno bisogno che il clinico modifichi il suo approccio.

Lavorare sui sogni

sogni, in ottica CMT, sono strumenti di adattamento ed espressione delle funzioni superiori della mente inconscia. Sia la loro costruzione sia il loro ricordo o il loro oblio sono funzione della loro utilità e del criterio della sicurezza vs pericolo. In sogno, le persone continuano a riflettere sulle proprie preoccupazioni; cercano di chiarire i propri obiettivi, i piani che potrebbero perseguire, le linee di condotta da adottare e le credenze patogene e i sensi di colpa che li ostacolano e al cui superamento vogliono lavorare.

Secondo la Control-Mastery Theory, infatti, anche in sogno, come nella vita di veglia, le persone continuano a riflettere sulle loro preoccupazioni attuali, in particolare su quelle che non sono riuscite a risolvere per mezzo del loro pensiero cosciente o rispetto alle quali non sono ancora riuscite ad elaborare un piano o una linea di condotta (policy) adeguata a causa della loro difficoltà obiettiva, per mancanza di tempo o per le proprie credenze patogene.

Come nei sogni dei prigionieri della guerra del Vietnam, raccontati da Weiss (1986, pp.125-127; 1993, pp.121-122), il sogno è quindi innanzitutto l’espressione di un tentativo di adattamento, unmessaggio semplice ma importante che la persona manda a sé stessa (come se si dicesse: “Tieni conto che se fai questo o succede questo, allora…), l’espressione di una o più linee di condotta che la persona sta prendendo in considerazione per affrontare le sue preoccupazioni principali (come se si dicesse: “Se faccio questo, allora accadrà che…”) e può fungere tanto da rassicurazione, quanto da avvertimento, consolazione, tentativo di padroneggiare traumi ed emozioni problematiche. Può essere un modo per spronarsi, per rassicurarsi, per fornirsi un’esperienza emotiva correttiva, ma anche un modo per punirsi a causa di sensi di colpa.

I sogni hanno quindi una funzione adattiva e si ricordano non solo quando non determinano sensazioni di pericolo troppo forti, ma anche e forse soprattutto quando ricordarli è utile.

Un sogno può comunicare il proprio messaggio, semplice ma molto importante, per mezzo di una storia, in parte realistica e in parte fiabesca, oppure lo può fare utilizzando generi letterali diversi e diverse tipologie di argomentazione (ad esempio, la dimostrazione per assurdo).

Inoltre, spesso i sogni si servono di figure retoriche diverse: allegorie, allusioni, analessi, antifrasi, metafore, metonimie, paragoni, sarcasmo, similitudini. In questo caso, ampio è l’uso della metafora: sentire che la propria vita è un viaggio, che la mente a volte sembra “fuori controllo” perché procede in modo troppo rapido, “entrare in contatto con la base delle proprie paure”, “guardarle”, “parlarci” ecc. E le caratteristiche formali di un sogno (quanto è chiaro o confuso, lungo o breve, nitido o sfocato ecc.) possono essere rilevanti quanto il suo contenuto, così come sono rilevati anche le considerazioni che i pazienti fanno su di esso a posteriori.

Anche se un paziente può riuscire a comprendere il senso di gran parte di un proprio sogno, poi, non è detto che ciò accada per tutti i sogni, che conservano comunque la loro funzione di problem solving; di certo, nel lavoro psicoterapico terapeuta e paziente possono evincere da un sogno quali sono gli obiettivi che l’analizzando vuole perseguire o sta perseguendo, quali sono gli ostacoli che lo bloccano, e quindi quali sono i problemi che il paziente desidera affrontare, o ancora come percepisce il terapeuta e come quest’ultimo potrebbe aiutarlo.

Inoltre, il racconto di un sogno di terapia può avere la funzione di un test, o può segnalare al terapeuta il superamento di un test e l’emergere di nuovo materiale. O ancora, può mostrare capacità di insight che un paziente può non riuscire a permettersi nella vita di veglia perché ostacolato dalle proprie credenze patogene.

Pertanto, i sogni non sono mai banali (Freud, 1899), ma riguardano qualcosa di urgente che la persona non è in grado di risolvere o non è ancora pronta ad affrontare a livello cosciente, lasciandolo così emergere in essi, anche se non tutti i sogni sono facilmente interpretabili e non per tutte le terapie l’interpretazione dei sogni è rilevante. L’interpretazione di un sogno può essere pensata come un compito analogo a quello svolto da chi mette la didascalia a un fumetto per renderne comprensibile il senso complessivo, e dall’idea di “interpretare” il senso di un sogno sarebbe forse opportuno passare a quella di “esplorarlo”.