Un doloroso vicolo cieco

Un doloroso vicolo cieco

di Francesco Gazzillo

Nel corso degli ultimi anni mi sono imbattuto più volte in una situazione clinica che ha attirato la mia attenzione. Alcuni pazienti sembravano oscillare tra due posizione opposte ed entrambe dolorose: da una parte avevano la forte spinta a cercare di mettersi in evidenza per cercare di acquisire, per mezzo dei successi raggiunti e dell’ammirazione altrui, un senso del loro valore personale che interiormente sentivano essere scarso; dall’altra, ogni volta che la possibilità di mettersi in evidenza si concretizzava o che riuscivano a farlo, finivano per sviluppare stati di ansia o depressione piuttosto intensi subito prima, durante o dopo il loro successo. Dovevano “primeggiare” per sentire di avere un valore, ma al tempo stesso sentivano di “non meritare le luci della ribalta”.

Questi pazienti, di età e sesso diverso, erano accomunati da una seconda caratteristica, il cui nesso con la prima sarà subito evidente: erano figli di genitori con problematiche narcisistiche che sembravano trasmettergli un messaggio ugualmente paradossale. Da una parte, comunicavano ai figli in modo più o meno esplicito di non andare mai davvero bene, di non essere adeguati o di essere francamente sbagliati poiché troppo diversi da loro o da come loro avrebbero voluto essere, e per questo erano più o meno francamente disprezzanti; dall’altra, gli comunicavano, in modo in genere implicito, quanto per loro (per questi genitori) fosse importante conservare un ruolo dominante nella famiglia, esserne in qualche modo i leader o comunque il centro. 

In alcuni casi, uno dei due genitori era quello che dava al figlio il messaggio per cui lui non andava mai bene e doveva essere diverso o meglio, mentre l’altro quello di dover preservare sempre una posizione di dominio. In altri casi, invece, era lo stesso genitore che svalutava il figlio, si proponeva come modello o gli proponeva un qualche modello da emulare, ma poi faceva sentire il figlio arrogante oppure oggetto di invidia quando cercava di riproporre il modello del genitore e di voler eguagliare quest’ultimo. E in altri casi ancora, ad alimentare il loro disagio nell’essere migliori c’erano (anche) fratelli o sorelle che versavano in condizioni peggiori delle loro.

Il messaggio che questi pazienti avevano ricevuto era dunque: per andare bene devi essere come me, come io vorrei che tu fossi o come io avrei voluto essere, ma devi anche restare sempre un passo indietro. Questi genitori si ponevano, detto in altro modo, come una divinità che accusa il figlio di essere un peccatore, gli fa capire che potrebbe amarlo solo nella misura in cui si sforzasse di essere un santo, ma allo stesso tempo necessita che resti un peccatore per rimanere l’unica e sola divinità da cui ricevere le leggi e il perdono.

Si trattava di situazioni perfette per alimentare un misto di odio di sé (io non vado mai davvero bene), una componente secondaria di senso di colpa di slealtà1 (per andare bene dovrei essere come la mia figura di riferimento o come lei mi vuole), e un senso di colpa del sopravvissuto (ma se diventassi come lei o la superassi, finirei per essere oggetto della sua invidia). È chiaramente uno dei casi in cui si presentano credenze patogene contraddittorie in conseguenza di richieste contraddittorie delle figure di riferimento. 

In tutti i casi di questo tipo da me trattati, la fonte maggiore di sofferenza erano le loro manifestazioni di compiacenza con entrambe le credenze (odio di sé e senso di colpa del sopravvissuto) e i modi per cercare di gestire queste manifestazioni (ad esempio, il perfezionismo), mentre le loro relazioni intime erano caratterizzate anche dai problemi connessi alle manifestazioni di identificazione con gli aspetti svalutanti e invidiosi dei caregiver. Tra l’altro, dato in linea con i risultati di alcune ricerche empiriche (Faccini et al., 2000; Leonardi et al., 2022), molte di queste persone manifestavano delle difficoltà a empatizzare realmente con gli altri e vederli in modo sufficientemente completo e realistico, una scarsa sensibilità alla sofferenza altrui che aveva come sola eccezione quegli aspetti, o quelle persone, che manifestavano problemi simili ai loro. Inoltre, erano spesso persone poco altruiste, e altrettanto povere erano le loro capacità riparative, quasi sempre ostacolate dalla convinzione di fondo di non avere nulla di realmente buono da dare all’altro, dal generale assorbimento in sé stesse e nei loro problemi, e da una fondamentale assenza di modelli di sforzi riparativi e comportamenti altruistici nelle loro famiglie di origine. Erano spesso persone poco sensibili dal punto di vista interpersonale e caratterizzate da grandi difficoltà a sentire fino in fondo ed ammettere colpe realistiche e cercare di riparare in modo efficace.

Dal punto di vista terapeutico, il piano di questi pazienti ha implicato un primo periodo di lavoro (di circa uno o due anni) centrato in modo quasi esclusivo sulla loro ricerca di disconferme delle credenze patogene relative all’odio di sé, ricerca condotta perlopiù per mezzo di un testing nel transfert e del tentativo di comprendere meglio perché si disprezzassero tanto. La componente più esplorativa del lavoro terapeutico è stata spesso di grande utilità perché andava incontro sia all’interesse di questi pazienti per una migliore comprensione di sé , sia a una loro richiesta implicita di essere trattati alla pari, anch’essa figlia del bisogno di disconfermare l’odio di sé. 

Quando il lavoro terapeutico, e i cambiamenti che esso favoriva nella loro vita e che contribuivano a rinforzare la loro autostima, aveva messo almeno in parte in discussione le loro convinzioni di indegnità e disvalore, a diventare centrale nel loro lavoro terapeutico diventava il bisogno di fare i conti con il senso di colpa del sopravvissuto. Iniziavano a pensare di poter riuscire, ma inconsciamente si chiedevano se lo meritassero davvero, e se le persone che gli stavano attorno avrebbero potuto accogliere i loro successi senza soffrirne, e il loro modo di testare il senso di colpa del sopravvissuto era perlopiù giocato nel transfert e mediato anche da comportamenti di ribellione al loro senso di colpa del sopravvissuto, sia dentro sia fuori la terapia. Mentre le difficoltà delle loro relazioni intime si riducevano, ma restavano abbastanza caratterizzate dai loro sforzi per disconfermare il loro senso di colpa del sopravvissuto per mezzo di test di transfert per ribellione e di test da passivo in attivo per compiacenza.

Questo lavoro sul senso di colpa del sopravvissuto in genere ha avuto inizio con il loro segnalarmi l’estrema angoscia con cui vivevano tutte le occasioni in cui avrebbero potuto avere un qualche tipo di visibilità o successo, tutti i fallimenti evitabili in cui avevano finito per imbattersi o, più spesso, la loro incapacità di godere pienamente di un successo a lungo agognato e raggiunto a causa nuove e immediate preoccupazioni per qualcosa o qualcun altro, di improvvisi e inattesi litigi che finivano per rimetterli “dalla parte del torto”, oppure a causa di forme di rimuginio persistente centrato su piccoli errori o imperfezioni nella performance fatta. Il tutto accompagnato a sentimenti di ansia, depressione e rabbia. 

In genere, la disconferma delle credenze connesse al sopravvissuto è stata lunga e faticosa, e i loro progressi erano evidenti e costanti se osservati dalla prospettiva della loro vita al di fuori della terapia, mentre in terapia quello che colpiva era la costanza e l’intensità dei problemi emotivi riportati e del loro lavoro inconscio per ridurre l’impatto del senso di colpa del sopravvissuto. 

Uno dei maggiori ostacoli alla riduzione del senso di colpa del sopravvissuto era poi la profonda “pena” che questi pazienti arrivavano a provare per il genitore “narcisista”, di cui di fatto avevano percepito, almeno da un certo momento in poi della loro infanzia, la profonda fragilità. La loro sofferenza e le loro inibizioni al successo erano il loro modo per non ferire questo genitore, per mostrargli di non essere meglio di lui, ed era difficile far loro comprendere fino in fondo che la loro sofferenza, le loro difficoltà e le loro rinunce non risolvevano il problema del genitore, ma al massimo gli risparmiavano un po’ di dolore.

In un vecchio lavoro per questo sito avevo delineato una situazione di testing assai difficile da superare nella vita reale, quella di persone che, per un misto di odio di sé e senso di colpa da separazione/slealtà giocati nel transfert e per ribellione, chiedevano alle persone care amore incondizionato e al tempo stesso incondizionata libertà di fare ciò che volevano: lasciarle, tradirle, deluderle; ho bisogno di essere amato sopra ogni altra cosa, e devo sentirmi libero di fare ciò che voglio anche se questo ti fa soffrire – questo è ciò che questi pazienti sembrava chiedere. 

In questo caso, invece, credo che a essere centrale è l’estrema difficoltà nel poter avere un’autostima realisticamente positiva e realizzarsi in un modo personale e reale senza pagarne uno scotto pesante in termini di serenità personale e relazionale. Non sei abbastanza, ma se provi a essere migliore verrai sbugiardato e punito – questo è ciò che sembrano dirsi di continuo.

________________________________________

1 Parlo di componente secondaria poiché un senso di colpa di slealtà primario implicherebbe che l’ostacolo alla capacità di smarcarsi dalle aspettative genitoriali fosse la sofferenza percepita nel caregiver, mentre in questi casi il prezzo della differenziazione dal caregiver era la svalutazione del sé.

 

Bibliografia

Faccini, F., Gazzillo, F., & Gorman, B. S. (2020). Guilt, shame, empathy, self-esteem, and traumas: New data for the validation of the Interpersonal Guilt Rating Scale-15 Self- Report (IGRS-15s). Psychodynamic Psychiatry, 48, 79–100. DOI: 10.1521/pdps.2020.48.1.79

Leonardi, J., Fimiani, R., Faccini, F., Gorman, B.S., Bush, M., & Gazzillo, F. (2020). An Empirical Investigation into Pathological Worry and Rumination: Guilt, Shame, Depression, and Anxiety. Psychology hub, 37, 3. DOI: 10.13133/2724-2943/17229 https://rosa.uniroma1.it/rosa04/psychology_hub/article/view/17229

Leonardi, J., Gazzillo, F., Gorman, B. S., & Kealy, D. (2022). Understanding interpersonal guilt: Associations with attachment, altruism, and personality pathology. Scandinavian Journal of Psychology, 63(6), 573–580. https://doi.org/10.1111/sjop.12854

 scarica l’articolo in PDF: Un doloroso vicolo cieco Francesco Gazzillo PDF

Leave a Reply