Note cliniche sul “superamento” dell’odio di sé
Francesco Gazzillo©
Alla fine di una lunga terapia, un paziente con dinamiche predominanti da odio di sé, alla domanda relativa a cosa lo abbia aiutato di più del trattamento e cosa gli sia piaciuto di meno, mi risponde: “Come sa, io ho difficoltà con gli specchi, con la mia immagine allo specchio. Quando mi guardo, non mi piaccio, e per questo non mi riconosco mai del tutto. Ecco, credo che la cosa che mi è piaciuta di meno è che lei per me è stato spesso uno specchio impietoso. E credo anche che sia questa la cosa che mi è servita di più”.
Pochi mesi dopo, un’altra paziente con tematiche prevalenti da odio di sé che si avvia alla conclusione della terapia mi dice: “Stavo pensando che, secondo me, è arrivato il momento di finire. Ho un buon lavoro, ho una relazione, ho una casa, sono più serena; certo, non è che sia particolarmente entusiasta di nulla, di certo non per molto tempo, ma credo che questa sono io”. Uno specchio impietoso che rimanda un’immagine “sufficiente” di sé.
È da queste risposte, che mi hanno colpito e mi hanno dato molto da riflettere, che partiranno queste mie brevi note sull’odio di sé e il suo “superamento” in terapia.
Queste osservazioni mi hanno infatti permesso di mettere a fuoco, ovviamente assieme a molte altre, quello che forse è il segno di un “superamento adeguato”, cioè né maniacale né depressivo, forse il solo realmente possibile, delle tematiche da odio di sé quando sono primarie e prevalenti nei pazienti. Si tratta di una posizione riassumibile per mezzo di frasi come “Questo sono io” oppure “Io sono così” in una dimensione di accettazione di fondo.
Credo che questo tipo di esito possa essere pensato come l’acquisizione della capacità di muoversi su un bordo cognitivo ed emotivo che può oscillare, di volta in volta, verso dimensioni più “grandiose” e “arroganti” (ribellione) o verso posizioni più “depresse” e “svalutanti” (compiacenza), ma senza ricadere troppo o troppo a lungo in esse. Un bordo che segnala che il paziente ha “superato il problema” nel senso che ha smesso, per periodi via via più lunghi, di chiedersi se vale o no, o di voler dimostrare a se stesso e agli altri il suo valore, e può partire da “quello che è” nel tentativo di “migliorarsi” se ne sente un’esigenza interna, esigenza connessa a situazioni esterne o evoluzioni interne specifiche, e non nel tentativo di raggiungere standard o ideali altri da sé. Un tentativo di “migliorarsi” che non è connotato dalla sensazione che “migliorarsi” implichi che non si vada bene.
Deve essersi inoltre stabilita una distinzione di fondo tra qualcosa che si dice o si fa, e che può essere più o meno adeguata, e ciò che si è. Ciò che si è detto o fatto può essere valutato in funzione della sua opportunità, adeguatezza ecc., ma questa valutazione non riguarda la propria “natura”. È difficile stare su questo bordo, ma non impossibile.
Sottolineo questo punto perché credo che “soluzioni” diverse al problema dell’odio di sé, come quelle che passano per idee del tipo “perché io valgo”, o viceversa per un’idealizzazione più o meno masochistica della capacità di restare sempre a contatto con i propri limiti, siano sostanzialmente false e pericolose. Per certi versi, il “superamento” dell’odio di sé di cui parlo è molto vicino alla possibilità di ritrovare la posizione originaria del bambino, che è semplicemente sé stesso e non si pone il problema di come dovrebbe essere, problema che è sempre l’adulto a introdurre nel suo mondo psichico.
L’esperienza clinica, e un buon numero di ricerche empiriche, dimostrano come l’odio di sé affondi le sue radici in relazioni traumatiche con i caregiver caratterizzate da abusi fisici, sessuali ed emotivi, trascuratezza, invalidazione e difficoltà dei caregiver nel prendersi cura del futuro paziente (vedi, ad esempio, Faccini et al., 2020; Leonardi, Gazzillo, Dazzi, in press). Sappiamo anche che la presenza di odio di sé correla con ansia, depressione, scarsa autostima, difficoltà di mentalizzazione, tendenza a rimuginare, rabbia, difficoltà nelle dimensioni del gioco e dell’esplorazione, insoddisfazione per il proprio aspetto fisico e sindrome dell’impostore. Infine, l’odio di sé correla con il livello complessivo di compromissione del funzionamento della personalità e negativamente con il livello di benessere e salute mentale. Insomma, l’odio di sé correla, possiamo dire, con il livello complessivo di gravità della psicopatologia e con quello del malessere soggettivo.
Contemporaneamente, l’odio di sé correla negativamente con l’alleanza terapeutica. È dunque chiaro il trattamento dei pazienti con odio di sé prevalente è spesso difficile, cosa che diventa ancora più chiara se pensiamo a come le credenze da odio di sé – non merito amore, rispetto, cura, protezione, stima, considerazione ecc. – si traducano in modalità di testing che danno vita nel paziente a comportamenti, comunicazioni e atteggiamenti autosvalutanti e autotrascuranti (transfert per compiacenza); a comportamenti, comunicazioni e atteggiamenti svalutanti e trascuranti nei confronti del clinico e della terapia (passivo in attivo per compiacenza); a comportamenti, comunicazioni e atteggiamenti caratterizzanti da entitlement e grandiosità (transfert per ribellione) o, ma più raramente, a comportamenti, comunicazioni e atteggiamenti di cura e valorizzazione “indiscriminata” (passivo-in-attivo per ribellione).
Queste modalità di testing, spesso mediate da una dimensione agita, dentro e fuori dalla stanza di terapia, suscitano spesso nel clinico sentimenti di angoscioso disvalore, vergogna, colpa per le condizioni del paziente, rabbia, svalutazione, disinvestimento, cura e preoccupazione eccessiva ecc., sentimenti che rendono a volte difficile una valutazione realistica di ciò che accade in terapia e una condotta clinica ottimale (Gazzillo, Bush & Kealy 2022), soprattutto se incontrano nel terapeuta tematiche da odio di sé, senso di colpa del sopravvissuto o da responsabilità onnipotente.
È esperienza clinica comune (vedi anche Shilkret, 2006) che lo strumento fondamentale per lavorare con questi pazienti, e a volte anche l’unico, è l’atteggiamento, un atteggiamento caratterizzato da una fondamentale accettazione tanto del paziente quanto di sé da parte del clinico. Si tratta, in sostanza, di “cure attraverso l’amore”. Ed è un’esperienza altrettanto comune come questo tipo di atteggiamento complessivo spesso si scontri con la necessità di confrontare questi pazienti rispetto a comportamenti, comunicazioni e atteggiamenti, assunti nella realtà esterna, che di fatto rendono frequenti situazioni in cui il loro odio di sé viene confermato dalle reazioni che suscitano negli altri e dalle conseguenze che hanno per la vita dei pazienti stessi. Sto parlando dei casi in cui la necessità di superare i loro test di rifiuto si scontra con la necessità di superare test di protezione: o li rassicuri e rassereni, ma non li proteggi, o li proteggi ma li ferisci. In linea generale, come si sa, la dimensione di superamento dei test dovrebbe essere privilegiata, soprattutto a inizio terapia e spesso per periodi lunghi di tempo. Cosa non di rado frustrante per il clinico, anche perché dà frutti solo dopo periodi prolungati di terapia.
Rispetto al superamento dei test da odio di sé vi è poi, a mio parere, un problema ulteriore e più specifico: sostenere l’autostima di pazienti che spesso, nella realtà, dentro e fuori la terapia, si comportano “male” e nella vita hanno combinato ben poco spesso non è facile, e il clinico, magari proprio perché si è riuscito a mettere davvero nei loro panni e a comprendere ciò che gli è mancato e di cui necessitano, può essere indotto a diventare troppo (e troppo precocemente) empatico, comprensivo e supportivo. Rischiando, in altri termini, di finire per dire “stronzate” (in senso filosofico, cioè cose che sa essere false ma convenienti da dire; Frankfurt, 1986), cosa di per sé antiterapeutica perché parte da un assunto implicito svalutante nei confronti del paziente, cioè dall’assunto che il paziente non sia in grado di comprendere la realtà del suo comportamento, i suoi pregi e i suoi difetti.
Per dirla in modo più diretto, credo che per superare la dimensione del testing nel transfert dei pazienti con odio di sé la cosa più importante sia assumere un atteggiamento basato su una fiducia e un interesse in loro che sia reale e realistico, e su una fiducia in sé stessi che sia autentica. Si tratta di riuscire ad “amare” davvero queste persone, a vedere o intravedere qualità positive che realmente possiedono o possono sviluppare, e di valorizzarle. Si tratta, in alcuni casi, di riuscire a comunicare loro che a noi piacciono e che possono farcela, e al contempo che siamo consapevoli dei loro limiti e vediamo i loro “errori”; e che noi riusciamo a stare bene con noi stessi essendo a nostra volta consapevoli dei nostri limiti, anche dei nostri limiti come terapeuti.
Per dirla in altri termini, non si tratta di sostenere un’autostima irrealisticamente elevata, di sottolineare qualità modeste o di simulare una cura, una stima e un ottimismo nella realtà assenti, ma di riuscire a vedere il mondo attraverso i loro occhi, di riuscire a valorizzare ciò che c’è o realisticamente potrebbe esserci, di riuscire a voler loro bene per quelli che sono, di riuscire a empatizzare davvero con i traumi che hanno subito e di mostrare loro che comprendiamo perché sono stati costretti ad attribuire a se stessi responsabilità che non erano loro.
La scelta relativa all’utilizzo di interventi più esplorativi, in questi casi ancor più che in altri, deve essere funzione della comprensione del senso che essi assumono per il paziente. Alcuni di questi pazienti possono vivere male le interpretazioni perché le vedono come un indicatore della “superiorità” del terapeuta, come giudizi di valore; altri possono apprezzarli come indicatori di interesse o del fatto che il terapeuta li tratti “alla pari” e non li voglia escludere dal loro sapere. Allo stesso modo, il clinico deve stare attento a comprendere il senso relazionale delle risposte positive o negative del paziente ai suoi interventi, perché la risposta del paziente può essere funzione più del senso relazionale che ha dato al fatto che il terapeuta gli abbia offerto un’interpretazione che non al contenuto della stessa; o, ancora, può utilizzare bene il contenuto di un’interpretazione per conquistare la stima e l’affetto del terapeuta più che perché tale contenuto era particolarmente buono. Allo stesso modo, per mia esperienza alcune confrontazioni, anche dure, possono essere molto utili per questi pazienti, anche se estremamente dolorose quando proposte, perché il paziente riconosce la verità di ciò che il clinico dice e perché il paziente, dietro di esse, vede il coinvolgimento del clinico e il fatto che creda in esso.
Spesso a essere utili per questi pazienti sono poi interventi che solo in ottica Control-Mastery (Weiss, 1993) possono essere ritenuti “terapeutici”: fare due chiacchiere su qualcosa che non riguardi la terapia, ricevere una torta di compleanno o un regalo, un abbraccio, la risposta a una domanda personale, un modo scherzoso di interagire, una presa in giro, o un consiglio sentito, per fare qualche esempio.
E rispetto all’utilizzo di tecniche più specifiche (EMDR, mindfulness, esposizione con prevenzione della risposta, focusing ecc.), è ancora una volta il senso relazionale che assumono per il paziente a fare sì che quest’ultimo le adotti e ne tragga beneficio o meno. Se riguardo la mia esperienza, alcuni pazienti hanno tratto beneficio dalla mindfulness nei loro tentativi di non essere travolti dai loro pensieri negativi, altri hanno trasformato la necessità di “accorgersi di quando la mente vaga e tornare al respiro” come un ennesimo banco di prova delle loro capacità; qualcuno ha tratto beneficio dall’EMDR, altri lo hanno vissuto segno del poco interesse, o della scarsa capacità, del clinico nell’ascoltarli e nell’aiutarli ad affrontare i loro problemi. Alcuni hanno fatto esperienze emotive correttive forti in sedute di imagery with rescripting, altri le hanno vissute come una “pagliacciata” che non risolveva nessuno dei loro “problemi reali”, o hanno preso a utilizzare l’immaginazione con fuga dalla necessità di affrontare i problemi che incontravano nella realtà. E, a essere sincero, dubito che esistano vere alternative terapeutiche all’esperienza emotiva, realmente correttiva, di avere qualcuno che ti ascolta, ti presta attenzione, cerca di capirti, ti protegge, ti supporta – e spesso ti sopporta – mentre resta sé stesso, abbastanza tranquillo e solido, ma umano. Qualcuno che, in modo diretto o indiretto, ti permette di sviluppare un’immagine più benevola di te e della tua storia. E va da sé che questo tipo di esperienze debbano essere ripetute più e più volte in una relazione intima e prolungata per apportare cambiamenti.
Ricordo ancora cosa mi disse un paziente, alla fine di quella che si rivelerà una prima tranche di terapia, durata più di quattro anni: “Mi hanno sempre trattato come un imbecille, e io ho imparato a considerarmi come un imbecille e a comportarmi di conseguenza; poi sono venuto qui, e lei mi ha trattato come una persona normale, e allora io ho imparato a considerarmi così e a comportarmi di conseguenza”.
Insomma, forse anche per la mia avversione a qualsiasi forma di presunzione e trionfalismo, ma soprattutto in base alla mia esperienza, credo che quello che ci si possa aspettare alla fine di una buona terapia, nel caso di pazienti con forte odio di sé, è di vederli sviluppare una capacità di “fare un passo di lato, o un piccolo salto” e poter guardare i sentimenti negativi che provano verso se stessi e poterli “ignorare” un po’. Una capacità di accettarsi per come si è e conoscendosi meglio, sapendo che in fondo si tenderà a cadere sempre allo stesso modo e imparando a smettere, via via più a lungo, di chiedere a sé stessi e agli altri se si va bene o no. Sapendo e accettando che si è come si è, valorizzando i propri pregi e cercando di migliorare rispetto a ciò che ancora crea problemi, senza che questa volontà di migliorare parta dalla competizione con qualcun altro, reale o immaginario, e senza che il riconoscimento di un proprio errore o limite diventi una condanna di sé stessi in toto.
Bibliografia
Faccini, F., Gazzillo, F., Gorman, B. De Luca, E., Dazzi, N (2020). Guilt, shame, empathy, self-esteem and traumas. New data for the validation of the Interpersonal Guilt Rating Scale -15 Self-report (IGRS-15s). Psychodynamic Psychiatry 48, 1, pp. 79-100
DOI: 10.1521/pdps.2020.48.1.79
Frankfurt, H.G. (1986), Stronzate. Un saggio filosofico. Tr. ti Rizzoli, 2005.
Gazzillo, F., Bush, M., Kealy, D. (2022). The Plan Formulation Method from Control Mastery Theory and Management of Countertransference. Psychodynamic Psychiatry, 50(4), 639–658
Leonardi, J., Gazzillo, F., Dazzi, F. (in press), Exploring Interpersonal Guilt: Association with emotion dysregulation, mentalization, frustration intolerance and body appreciation. Psychodynamic Psychiatry.
Shilkret, C. J. (2006). Endangered by interpretations: Treatment by attitude of the narcissistically vulnerable patient. Psychoanalytic Psychology, 23(1), 30–42. https://doi.org/10.1037/0736-9735.23.1.30
Weiss, J. (1993), Come funziona la psicoterapia. Tr. it. Boringhieri, Torino, 1999.
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