Riflessioni sul trattamento per mezzo degli atteggiamenti

Riflessioni sul trattamento per mezzo degli atteggiamenti
John Curtis©

Tradizione a cura di Francesco Gazzillo

Tra il 1994 e il 2005 Hal Sampson ha scritto vari articoli su quelli che chiamava “trattamenti per mezzo degli atteggiamenti”.
Devo ammettere che quando mi sono imbattuto per la prima volta in questo concetto, presentato in un articolo pubblicato in una newsletter, le SFPRG Process Notes (1994), ne sono rimasto piuttosto deluso. Sembrava un concetto ovvio e che poteva essere sussunto nel concetto di testing. Inoltre, il titolo sembrava suggerire un approccio terapeutico unico, il trattamento per mezzo degli atteggiamenti, cosa confusiva perché Hal descriveva l’atteggiamento come un elemento ubiquitario e centrale in tutti gli approcci terapeutici. Ma, quando ho avuto l’occasione di prendere in considerazione e valutare l’impatto del mio atteggiamento su una paziente che stavo trattando in quel periodo, sono riuscito a comprendere in che modo il mio atteggiamento – e il modo in cui la paziente lo percepiva – avesse un impatto a volte sottile, ma potente, sul modo in cui lei recepiva i miei interventi. Inoltre, sono riuscito a comprendere meglio come le mie interpretazioni e le mie reazioni, spesso inconsce, all’atteggiamento della paziente plasmassero il modo in cui formulavo il suo piano e intervenivo con lei.
Quello che vorrei fare oggi è (1) passare in rassegna quello che Hal ha scritto sul trattamento per mezzo degli atteggiamenti nel suo ultimo articolo; (2) cercare di elaborare il concetto di atteggiamento passando in rassegna le sue relazioni con le credenze; (3) passare in rassegna il ruolo giocato dall’atteggiamento, del terapeuta e del paziente, nel processo terapeutico; (4) illustrare alcuni di questi punti parlando brevemente del caso che ho menzionato e, infine, (5) cercare di descrivere la dinamica nucleare dei quattro casi riportati come esempi prototipici del trattamento per mezzo degli atteggiamenti.
L’ultimo articolo di Sampson su questo tema è stato pubblicato nel libro, curato da George Silberschatz, Transformative Relationships (2005). In questo lavoro, Sampson illustra il concetto di trattamento per mezzo degli atteggiamenti tramite il caso di una giovane donna. Per chi non conosce questo lavoro, sinterizzerò brevemente il resoconto di Sampson: la paziente era stata inviata in terapia da uno zio, che era uno psichiatra. Aveva parlato con il futuro terapeuta dei problemi della nipote nell’iniziare delle relazioni, soprattutto con gli uomini. Lo zio l’aveva quindi inviata al dottor M, ma l’aveva avvertita che era possibile che il terapeuta fosse pieno e non potesse prenderla in carico; a quest’ultimo, lo zio aveva detto che sua nipote aveva “problemi connessi al rifiuto”. Il padre era un “workaholic” che non era mai disponibile per lei, e questo poteva essere uno dei fattori alla base dei suoi problemi.
“Nelle prime due sedute con il Dottor M la paziente aveva descritto i sui problemi nello stesso modo in cui lo aveva fatto lo zio. Poi aveva espresso un certo scetticismo rispetto all’utilità della terapia. Aveva detto che per lei non era facile parlare di sé ed esprimere i suoi sentimenti. Aveva un modo di fare riservato, e non aveva raccontato la sua storia neppure quando era stata invitata a farlo (ibidem, p.111).”
Nel corso della terza seduta, quando il terapeuta stava per dire alla paziente come pensava di procedere, la ragazza aveva detto che aveva quasi deciso non iniziare alcuna terapia, almeno per il momento. Aveva ribadito il suo scetticismo rispetto al trattamento e il suo disagio rispetto al processo – e aveva aggiungo che impiegava molto tempo ad arrivare allo studio del Dottor M e che, se avesse deciso di iniziare una terapia, avrebbe cercato un terapeuta che lavorava più vicino a casa sua.
Il Dottor M le aveva risposto che pensava che la terapia le sarebbe stata utile, e che le consigliava di iniziarla subito. E che lui era disponibile a lavorare con lei, se voleva. La paziente si era detta immediatamente d’accordo e aveva espresso la sua contentezza per la possibilità di lavorare con lui. Poi aveva parlato di suo padre, di come non trovasse mai il tempo per stare con lei e di come lei fosse delusa dalla relazione con lui. Nel corso delle settimane successive, la paziente aveva riportato alla luce molti ricordi dolorosi in cui traspariva quanto si sentisse poco importante per lui. E aveva detto che pensava che le cose stessero così perché era lei che era poco interessante e noiosa. Il Dottor M non era stato sorpreso dalla risposta positiva della paziente poiché si era basato sui commenti dello zio relativi al fatto che aveva problemi di rifiuto dovuti alla scarsa disponibilità del padre (ibidem, p.113).
Sampson scrive che l’intervento del terapeuta aveva era stato efficace perché aveva comunicato alla paziente il suo atteggiamento: aveva voglia di lavorare con lei e non l’avrebbe né ignorata né rifiutata come pensava avesse fatto suo padre.
L’atteggiamento del Dottor M aveva iniziato a disconfermare le credenze della paziente relative al suo meritare il rifiuto e alla sua mancanza di valore. Questo atteggiamento l’aveva fatta sentire sufficientemente al sicuro nella relazione con il Dottor M da portarla a decidere di iniziare la terapia, a farlo in modo entusiasta e speranzoso, e a esaminare in modo spontaneo i sentimenti dolorosi che aveva provato con suo padre.
Sampson si chiede anche se la paziente, nell’esprimere la sua riluttanza rispetto alla terapia, non stesse proponendo un test da passivo-in-attivo – cioè se non stesse inconsciamente cercando di capire in che modo il Dottor M avrebbe reagito al suo atteggiamento rifiutante. Quando il terapeuta le aveva raccomandato di iniziare subito una terapia, e di iniziarla con lui, le fornito offerto il modello di un atteggiamento che avrebbe potuto esserle utile, un atteggiamento che esprimeva la sua disponibilità a stabilire una relazione anche al cospetto del rischio di un possibile rifiuto o di una possibile delusione. È interessante notare che Sampson non prenda in considerazione l’ipotesi che quello potesse essere (anche) un test di transfert: la paziente, di fatto, voleva vedere se il terapeuta le avrebbe dimostrato un interesse attivo.
Sampson (2005) sintetizza la sua prospettiva sul trattamento per mezzo degli atteggiamenti come segue: “è ubiquitario, anche se spesso non viene notato, ed è parte di tutte le psicoterapie. Tutti i clinici, indipendentemente dal loro orientamento teorico, comunicano inevitabilmente i loro atteggiamenti ai pazienti con cui lavorano. Lo fanno per mezzo delle interpretazioni, di ciò a cui prestano attenzione e di ciò che ignorano, e per mezzo dei loro modi di fare e di essere. In breve, i terapeuti comunicano atteggiamenti significativi ai loro pazienti in tutti i modi, coscienti e inconsci, in cui le persone lo fanno nella vita quotidiana. Il paziente, da parte sua, è molto motivato, consciamente e inconsciamente, a cogliere gli atteggiamenti rilevanti per i suoi obiettivi, per le sue credenze patogene, per le sue speranze e per le sue paure. Il paziente leggerà gli atteggiamenti del terapeuta nei termini della sua psicologia e delle sue preoccupazioni immediate … Il terapeuta può trasmettere atteggiamenti rilevanti intenzionalmente o meno, consciamente e inconsciamente. Per questo motivo, il termine trattamento per mezzo degli atteggiamenti si riferisce tanto a un processo che ha luogo spesso al di fuori della consapevolezza cosciente di entrambi i partecipanti, quanto di un processo che può essere usato in modo intenzionale dal terapeuta per facilitare il trattamento” (ibidem, p.115)
Cerchiamo dunque di approfondire cosa si intende per “atteggiamenti” e il ruolo che essi giocano in terapia. Ciò implica considerare il modo in cui le credenze si sviluppano, l’impatto che hanno sul funzionamento delle persone e i modi in cui le persone aderiscono alle loro credenze e le mettono alla prova.
La definizione di atteggiamento proposta dal dizionario di Merriam-Webster (1966) è, “(1) una postura del corpo che mostra, o intende mostrare, uno stato mentale, un’emozione o un umore (2) un modo di fare, sentire o pensare che mostra la disposizione, l’opinione ecc. di una persona”. L’atteggiamento è dunque la stoffa di tutte le interazioni interpersonali perché esprime o riflette le credenze e le intenzioni delle persone. Osservando l’atteggiamento di qualcuno, ne comprendiamo credenze ed emozioni – anche se lo facciamo tramite le lenti dei nostri atteggiamenti. Per questo motivo, quello che può essere percepito come un gesto amichevole da parte di qualcuno che parte dall’atteggiamento per cui gli altri sono bene intenzionati, potrebbe essere percepito come una critica o una forma di condiscendenza da una persona il cui atteggiamento di base è quello per cui gli altri non meritano fiducia.
L’atteggiamento è plasmato dalle credenze e riflette queste credenze. Le nostre osservazioni sugli atteggiamenti degli altri ci forniscono una prospettiva sulle loro credenze e su come è probabile che ci risponderanno. Da questo punto di vista, osservare e valutare gli atteggiamenti degli altri può essere un modo relativamente sicuro di testare o anche di disconfermare una credenza. Come notato da Sampson (2005), questo processo può avvenire inconsciamente da entrambe le parti. Propongo dunque l’idea che gli atteggiamenti seguano le stesse regole delle credenze. Cioè, la maggior parte delle nostre credenze sono inconsce ed esercitano la loro influenza in modo automatico e inconscio. Nondimeno, monitoriamo costantemente se gli eventi e le esperienze che facciamo sono o meno in accordo con le nostre credenze. La percezione di discordanze tra credenze e atteggiamenti da una parte, ed eventi ed esperienze dall’altra, può favorire una maggiore consapevolezza delle credenze e/o una loro messa alla prova, o anche una loro disconferma.
Poiché riflettono le credenze, gli atteggiamenti sono la lingua franca della psicoterapia. E ciò si riflette nel modo in cui pazienti e terapeuti lavorano insieme per disconfermare le credenze patogene dei pazienti. Nel suo capitolo sulla “Control-Mastery Theory” in Transformative Relationships, Silberschatz (2005) sintetizza i tre modi in cui pazienti e terapeuti lo fanno: (1) usando la relazione terapeutica, (2) per mezzo delle conoscenze e degli insight comunicati dalle interpretazioni del terapeuta; e (3) per mezzo del superamento dei test. Come Silberschatz nota, “questi tre modi di lavorare non sono mutualmente escludentisi; per la verità, la maggior parte delle psicoterapie fa affidamento su una combinazione di essi” (ibidem, p.10)
Gli atteggiamenti sono un fattore centrale in tutti e tre questi modi di lavorare. E l’atteggiamento del terapeuta è centrale nella relazione terapeutica. Per esempio, la relazione terapeutica creata dall’atteggiamento accogliente e accettante del clinico cui parla Sampson ha aiutato la paziente a disconfermare le sue credenze patogene. E Silberschatz fornisce un esempio simile di una giovane donna che “era stata gravemente maltrattata dal padre, uomo distante e riservato, e dalla madre sadica e rifiutante” e che era stata aiutata dalle qualità personali del suo terapeuta, un uomo “caldo, empatico, gentile, rispetto ed emotivamente attento” (ibidem, p.11). Se e in che misura un paziente trae beneficio dalle interpretazioni del terapeuta è determinato, almeno in parte, dall’atteggiamento con cui il paziente le comunica. Per esempio, se un intervento, anche pro-plan nel contenuto, è vissuto dal paziente come arrogante o inautentico, allora verrà rifiutato. Infine, i terapeuti passano o falliscono i test dei pazienti anche per mezzo degli atteggiamenti che manifestano nel rispondervi. Nei test di transfer, il paziente monitora se l’atteggiamento del terapeuta è diverso da quello dei suoi altri traumatizzanti. In quelli da passivo-in-attivo, il paziente monitora se il terapeuta è in grado di fargli da modello mostrando un atteggiamento che sarebbe utile che il paziente assumesse.
Allora, quale dovrebbe essere l’atteggiamento del terapeuta? Come forse è ovvio, dovrebbe essere “cucito” sul singolo paziente e fornirgli un’esperienza diversa da quelle traumatiche che ha vissuto. Come nota Sampson , ogni terapeuta ha uno stile e un approccio diverso e perciò può manifestare in modo diverso i propri atteggiamenti. Parte della sfida che il terapeuta deve affrontare è quella di adattare il suo stile in modo che corrisponda a ciò di cui il paziente ha bisogno (vedi sotto a proposito delle ipotesi di Shilkret). Per farlo, deve prima di tutto riconoscere qual è il suo atteggiamento, tenendo a mente che esso esprime credenze di cui può non essere consapevole. Poi deve valutare in che modo il paziente fa esperienza e reagisce a quell’atteggiamento, riconoscendo che tutto ciò è caso-specifico. Nel farlo, deve adottare un atteggiamento che sia responsivo rispetto al paziente e deve adattare la terapia alle esigenze di quest’ultimo – e, aggiungerei, deve rispondere all’atteggiamento del paziente in accordo con le strategie di testing e le comunicazioni di coaching proposte da quest’ultimo. Per esempio, come notato da Sampson (2005), se la paziente di cui parlava avesse avuto un genitore dominante e controllante, avrebbe potuto fare esperienza degli interventi del terapeuta come dominanti e controllanti.

Adesso vorrei descrivervi brevemente il caso che ho trattato all’inizio della mia carriera e che ha attirato la mia attenzione sul ruolo dell’atteggiamento del terapeuta.
W era una donna di 38 anni, sposata con due figli. Aveva una laurea di primo livello in psicologia clinica e stava portando a termine una ricerca per la tesi di laurea magistrale mentre avviava la sua pratica clinica privata. Mi era stata inviata da un collega che stava supervisionando il suo lavoro e che l’aveva introdotta alla Control-Mastery Theory.

I motivi per cui voleva iniziare una terapia: nel corso del primo colloquio, W mi aveva raccontato che aveva difficoltà a mantenere il giusto equilibrio tra lavoro e vita personale. Era in conflitto rispetto alla laurea e all’attività privata perché fare queste cose implicava sacrificare la sua vita familiare. Il marito la accusava di trascurare la famiglia per fare carriera, e spesso litigavano per ragioni relative ai figli.
Nelle prime due sedute avevamo discusso di ciò che l’aveva spinta a cercare un trattamento e lei mi aveva iniziato a raccontare la sua storia:
La storia della paziente: W era la più piccola dei tre figli di un uomo di affari e di una casalinga (il fratello maggiore aveva 13 mesi più di lei). Mi aveva descritto il rapporto tra i genitori come tempestoso. Suo padre era politicamente e socialmente conservatore e aveva bisogno di ordine e prevedibilità; la madre era “bohemien”, un’artista, e proveniva da un ambiente radicale. Il padre era spesso via per lavoro. Nel corso del suo sviluppo la famiglia aveva fatto numerosi traslochi, a volte anche in nazioni diverse, a causa del lavoro del padre. W sentiva che i genitori stavano sempre per divorziare, e sospettava che il padre avesse relazioni extraconiugali.
Alla paziente era stato insegnato di mettere le altre persone al primo posto. Per esempio, quando stava imparando a giocare a tennis i genitori le chiedevano sempre di recuperare le palle che erano uscite dal campo, anche se ciò implicava che lei interrompesse la partita che stava giocando. La madre le diceva sempre di non fare nulla prima che il fratello non fosse riuscito a fare la stessa cosa che voleva fare lei, così da non metterlo in imbarazzo. E lei sentiva di dover lottare per ottenere qualsiasi cosa. Ricordava anche di non aver potuto partecipare a un saggio di danza per il quale si era preparata un anno perché i genitori non avevano voluto ritardare di un giorno la partenza per una nuova città.
A 19 anni aveva lasciato l’università per sposarsi. Il marito si era laureato nella stessa università che lei stava frequentando e poi si era iscritto alla specialistica di un’università di un’altra città. Le era stato fatto capire che se non si fosse sposata e non lo avesse seguito, la loro relazione sarebbe finita. I problemi matrimoniali erano emersi presto. Il marito era sempre insoddisfatto di lei, e diceva che non era quella che pensava fosse – secondo lui, quando erano fidanzati sembrava una donna sicura di sé e indipendente, ma non si era rivelata così dopo il matrimonio. W riportava che spesso, nel corso dei primi cinque o sei anni di matrimonio, aveva pensato di lasciare il marito, ma poi non lo aveva fatto.
Il marito aveva sviluppato un’attività commerciale di successo nella Bay Area. Avevano due figli, di 10 e 13 anni. A poco più di 30 anni la paziente aveva deciso di formarsi come psicologa clinica, e lo aveva fatto nonostante le obiezioni del marito, che era preoccupato che ciò avrebbe implicato trascurare i figli e il matrimonio.
Sulla base delle prime due sedute, avevo ipotizzato, in via provvisoria, che W avesse queste credenze patogene: che doveva sottomettersi ai bisogni e alle aspirazioni degli altri – e che non doveva aspettarsi di essere ricambiata. Inoltre, dato che credeva che gli altri si sentivano minacciati dai suoi desideri e dai suoi successi, pensava di dover mitigare le sue aspirazioni e chinare il capo. Infine, credeva di dover rinunciare alle sue aspirazioni e ai suoi obiettivi per gli altri, e che ciò che sentiva e di cui aveva bisogno non era importante. Il fatto che fosse in parte consapevole di queste credenze lasciava pensare che, per quanto la influenzassero e ci combattesse, esse non la dominavano del tutto.
All’inizio della terza seduta W mi aveva detto che dovevo aver superato un test importante nella seduta precedente. Ripensandoci, però, non riuscivo a ricordare nessuna interazione che assomigliasse a un test e nessuna sensazione di essere testato, e quindi le avevo chiesto di dirmi di più. A quel punto, lei mi aveva detto che, uscita dal mio studio, mentre stava ritornando alla macchina, aveva ripensato a ciò di cui aveva parlato. E, improvvisamente, si era sentita inondata da sentimenti di tristezza e rabbia, ed era scoppiata in un pianto incontrollabile. Era riuscita a tornare in macchina, ma non era in grado di guidare. Piangeva e colpiva lo sterzo con le mani in preda alla rabbia. Era rimasta sconcertata da quella reazione (di cui sperava nessuno si fosse accorto). Dopo alcuni minuti, il suo turbamento aveva ceduto il passo a una sensazione di sollevo e calma, e si era ricordata di me che le avevo chiesto: “Cosa pensa?” mentre mi raccontava la sua storia. All’inizio era rimasta stupita dalla reazione che le aveva provocato la mia domanda, e si era chiesta perché ricordarsene le aveva dato tanto sollievo. Questo le aveva fatto pensare al modo in cui le altre persone reagivano a lei. Il marito non sembrava interessarsi a ciò che pensava e provava, e spesso non dava importanza alle sue idee quando discutevano di problemi relativi ai figli. E quando aveva cercato di parlare con i genitori dei suoi problemi coniugali, loro non l’avevano ascoltata e le avevano chiesto perché avesse ripreso a studiare e a lavorare anziché focalizzarsi sul marito e i figli. Poi le era tornato alla mente un incidente che si era verificato nel corso di una gita al mare con la famiglia. Si era avventurata a esplorare delle scogliere sull’oceano, era scivolata ed era caduta, precipitando su una piccola sporgenza da cui non sapeva come risalire. Dopo alcune ore, i genitori se ne erano accorti e l’avevano salvata. Questa esperienza l’aveva traumatizzata, ma la sua famiglia non sembrava interessata a ciò che aveva provato e si era focalizzata sul fatto che questo incidente avesse rovinato loro la gita. L’avevano accusata di essere troppo intraprendente e spericolata, ragion per cui si cacciava nei guai. E poi si era ricordata anche che, da adolescente, la madre e il fratello la scoraggiavano dall’uscire con gli uomini mostrandosi preoccupati che questi potessero approfittarsi di lei e che lei non fosse in grado di prendersi cura di sé.
W mi aveva spiegato che secondo lei la mia domanda (“Cosa pensa?”) aveva superato un suo test perché le aveva permesso di recuperare tutti questi ricordi. Ma aveva anche aggiunto che nel corso della seduta non aveva avuto l’impressione che mi stesse testando, né aveva capito cosa stesse testando. Al tempo, quello che mi aveva colpito di questa esperienza era che fosse incredibile il fatto che mi avesse testato e io avessi superato il suo test senza nemmeno rendermene conto.
Nel corso degli anni successivi la terapia sembrava procedere bene. La paziente si era laureata, aveva iniziato a vedere pazienti e stava divorziando, nonostante l’opposizione del marito e dei genitori. I miei interventi si focalizzavano sui suoi tentativi di mettere al centro sé stessa e sulla sua preoccupazione che, facendo così, si rivelasse inappropriatamente egoista e non interessata agli altri.
Dopo il divorzio, quando aveva iniziato ad avere relazioni con altri uomini, notai un cambiamento nel suo atteggiamento. Mi parlava dei problemi che stava avendo con un uomo che stava frequentando senza che io riuscissi a farmi nessuna idea di come volesse affrontarli. Una volta mi aveva raccontato di alcuni comportamenti che aveva avuto con quest’uomo, comportamenti che l’avevano compromessa e per i quali stava male, ma senza alcun interesse evidente nel comprendere cosa stesse facendo e perché. Mi sconcertava il fatto che, dopo essersi liberata da un matrimonio decisamente tossico, adesso sembrava che non riuscisse a, o non volesse, esercitare una maggiore agency in queste nuove relazioni. Stava tornando a un vecchio pattern caratterizzato dal prendersi cura degli uomini lasciandosi dominare da loro?
In quel periodo avevo il lavoro di Sampson sul trattamento per mezzo degli atteggiamenti pubblicato nella newsletter del San Francisco Psychotherapy Research Group (1994). Ero intrigato dai paralleli tra la risposta della paziente descritta da Hal in quell’articolo (la stessa paziente descritta nel capitolo del libro di Silberschatz del 2005) e quella di W al mio “test superato”. Assumendo la prospettiva del trattamento per mezzo degli atteggiamenti, adesso credo che la risposta di W al mio chiederle cosa pensasse nella seconda seduta fosse una reazione a quello che lei percepiva essere il mio atteggiamento, al fatto che volessi davvero capire e dare la priorità ai suoi bisogni – un atteggiamento piuttosto diverso da quello del marito e dei genitori. Come nel caso di Sampson, la mia domanda/il mio intervento potrebbero aver superato un test di transfert per compiacenza perché metteva al primo posto i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Questo fatto mi aveva portato a chiedermi come W stesse vivendo le sue nuove relazioni. Mentre ripensavo alla storia di W, mi aveva colpito una cosa di cui avevamo parlato in varie circostanze, cioè del fatto che gli altri agivano come se lei non fosse in grado di prendersi cura di sé. Come ho detto prima, quando era al liceo la madre e il fratello cercavano di controllare chi fossero le persone con cui usciva perché sembravano pensare che lei non sapesse comportarsi. Il marito regolarmente si opponeva al suo desiderio di andare in luoghi nuovi e provare nuove cose (per esempio, l’università), lasciandole intendere che lei non era in grado di affrontare queste sfide. Avevo quindi iniziato a chiedermi se W vivesse le mie domande e i miei tentativi di esplorare i problemi che identificava nelle sue relazioni come un riflesso dei miei dubbi sulla sua capacità di gestire da sola queste situazioni – anche se pensavo che i miei interventi erano essenzialmente pro-plan. Di conseguenza, adottai – o almeno cercai di farlo – un atteggiamento diverso quando mi riportava i suoi problemi relazionali. Anziché chiederle cosa pensasse di questi problemi o cercare di individuare le credenze che forse si riflettevano nel modo in cui reagiva a questi problemi, iniziai ad adottare un atteggiamento del tipo “Cosa pensa di fare rispetto a questo problema, ammesso che voglia fare qualcosa?” Essenzialmente, cercavo di comunicarle, per mezzo del mio atteggiamento, qualcosa che sentivo davvero, cioè che secondo me lei era più che in grado di gestire in modo adeguato situazioni difficili. E questo determinò un cambiamento piuttosto drammatico nel suo atteggiamento. Sembrava molto meno passiva e oppressa e mi parlava di come stesse provando diversi modi di comportarsi con gli uomini e di rispondere loro. Successivamente W riuscì a superare varie relazioni problematiche prima di imbarcarsi nel rapporto con un uomo che poi finì per sposare.
Mentre quest’ultima relazione evolveva, W – adesso la dottoressa W – mi disse che era pronta a terminare la terapia. Senza dirglielo, mi chiesi se questa fosse una decisione saggia, viste le difficoltà che stava affrontando anche in questo nuovo rapporto, ma mi chiesi anche se, almeno in parte, questo non fosse un test relativo alla fiducia che avevo nella sua capacità di prendersi cura di sé. Le chiesi cosa pensasse della conclusione della terapia, e se voleva vedere come se la cavava da sola. Lei fece riferimento al suo nuovo rapporto e alle questioni che stava sollevando dentro di lei – soprattutto, quella di dare la priorità a sé stessa e di dire ciò che sentiva e pensava. Disse che era consapevole del fatto che ancora, all’inizio, le capitava di reagire ai conflitti come aveva fatto sempre – chiedendosi se dovesse dare la priorità ai suoi desideri e sentimenti o quelli degli agli altri e se fosse “egoista” – ma quando ciò accadeva se ne rendeva conto velocemente e, per usare le sue parole, aveva “un nuovo atteggiamento oltre a quello vecchio” che le ricordava che poteva farcela e che era giusto rispettare i propri bisogni e i propri desideri. Mi disse che si sentiva sicura proprio grazie a questo nuovo atteggiamento, e allora le risposi che sembrava pronta per la conclusione della terapia.
Credo che il caso di W illustri il ruolo che gli atteggiamenti – quello del terapeuta e quello del paziente – giocano nel contesto della psicoterapia, ma mi è difficile definire il suo trattamento come un “trattamento per mezzo degli atteggiamenti” a causa di tutti gli elementi di una terapia convenzionale che lo avevano caratterizzato – insight, interpretazioni, testing. Per questo motivo, adesso passerò a trattare dei quattro casi che meglio rappresentano i trattamenti per mezzo degli atteggiamenti.
Nel suo articolo pubblicato in Transformative Relationships, Sampson (2005) descrive persone “che possono essere aiutate solo da un trattamento per mezzo degli atteggiamenti. Non sono in grado o non vogliono adeguarsi a psicoterapie più convenzionali…Possono, comunque, fare e beneficiare di quelle terapie che Weiss descrive come “insolite” – trattamenti di successo, spesso lunghi, in cui non ci sono interpretazioni, confrontazioni o analisi delle difese, e sono poche le occasioni in cui il terapeuta parla in modo esplicito della psicologia del paziente. Sono trattamenti nei quali il terapeuta si adatta alle richieste uniche del paziente manifestando un atteggiamento che gli è utile” (ibidem, p.119)
Come esempio di questo tipo di trattamenti, Sampson fa riferimento a due casi riportati da Weiss (2005) nel capitolo “Safety” del libro di Silberschatz. Due altri esempi di questo tipo di trattamenti sono riportati da Cytnhia Shilkret (2006) nel suo articolo “Endangered by Interpretations: Treatment by Attitude of the Narcissistically Vulnerable Patients.” Passerò rapidamente in rassegna alcuni aspetti di questi casi che illustrano questo tipo di lavoro, i diversi tipi di accomodamento fatti dal terapeuta con questi pazienti e il modo in cui si è giunti a questi accomodamenti (gli atteggiamenti del terapeuta).
Inizierò con i due casi di cui parla Shilkret. Posso solo sintetizzarli brevemente, e nel farlo potrei distorcere le belle descrizioni che ne fa Cynthia. Se non li conoscete, vi suggerisco caldamente di leggerli, sia per le idee che presenta sia per il modo avvincente con cui descrive il processo della loro terapia.
La tesi di Cynthia è ben sintetizzata nell’abstract del suo lavoro:

Alcuni pazienti narcisisticamente danneggiati rappresentano una sfida terapeutica particolarmente difficile. Spesso non riescono a tollerare le interpretazioni perché le vivono come prove umilianti del fatto che sono vergognosamente deficitari. Per questi pazienti, un “trattamento per mezzo dell’atteggiamento” e senza interpretazioni significative può essere l’unico modo in cui possono sentirsi sufficientemente al sicuro per permette al processo terapeutico di dispiegarsi … il clinico dimostra un atteggiamento che disconferma la credenza inconscia del paziente senza interpretare al paziente quale sia questa credenza (idem, p.33).

Nel primo caso, quello di Mary, “l’atteggiamento terapeutico usuale di accettazione non giudicante era stato sufficiente”.

Motivi per cui aveva deciso di iniziare una terapia: insoddisfazioni molteplici in tutte le aree della sua vita. Era insoddisfatta, ma non riusciva a cambiare
Traumi principali: Entrambi i genitori erano infelici e rassegnati al fato. Pensavano che nulla potesse essere mai risolto o migliorare.
Credenza patogena: Non si può fare nulla per cambiare la situazione, ed è troppo pericoloso anche solo provarci. Mary credeva di essere troppo debole per affrontare il mondo.
Atteggiamento iniziale del paziente: Ogni intervento era vissuto come un rinforzo della visione di sé come una perdente a cui bisognava dire cose umilianti. E lei reagiva spegnendosi e diventando incapace di pensare.
Atteggiamento della terapeuta: Era passata dal fare interventi al mantenere un atteggiamento positivo, soprattutto quando Mary si comportava come se non si potesse fare nulla per risolvere i suoi problemi. Per esempio, quando Mary si lamentava che la vita era orribile, Cynthia le diceva: “Sono d’accordo che è difficile, ma forse possiamo trovare il modo per migliorare un pochino le cose”.
Risposta del paziente al mutato atteggiamento del terapeuta: Mary aveva adottato l’atteggiamento per cui i suoi problemi non erano qualcosa di cui vergognarsi, e potevano essere superati. Aveva capito che si era identificata con i suoi genitori “falliti”.
Il comportamento di Mary era test da un passivo-in-attivo per compiacenza in risposta al quale la terapeuta aveva modellato un atteggiamento appropriato che Mary aveva finito per adottare.

Nel secondo caso, quello di Dolores, la paziente aveva bisogno che la terapeuta le dimostrasse una totale mancanza di preoccupazione rispetto al fatto che lei facesse o meno progressi.
Motivi per cui aveva deciso di iniziare una terapia: Dolores si sentiva un fallimento sia dal punto di vista lavorativo sia da quello sentimentale. Riportava una storia di incapacità a mantenere una relazione o un lavoro, spesso a causa del suo atteggiamento ostile e critico
Traumi principali: I suoi genitori erano estremamente critici, incapaci di apprezzare i suoi successi ma pronti a sottolineare i suoi difetti. La madre andava nel panico per ragioni che non erano chiare, ma poi negava di essersi angosciata
Credenza patogena: Dolores credeva di essere fondamentalmente difettosa. E si sentiva responsabile dell’angoscia della madre (con cui aveva finito per identificarsi).
Atteggiamento iniziale del paziente: Qualsiasi intervento del terapeuta, anche l’empatia, era vissuto come un segno umiliante del fatto che lei era difettosa, che aveva un problema. “Qualsiasi tentativo, da parte mia, di analizzare qualcosa in seduta aveva come esito che lei diventava sempre più irritata dalla mia incompetenza e dalla mia mancanza di empatia per la sua situazione”.
Atteggiamento della terapeuta: Era passata dal cercare di indagare i pensieri e i sentimenti di Dolores all’adottare un atteggiamento per il quale non era né ferita né turbata da nulla di ciò che Dolores diceva. “Mantenni un atteggiamento costante di assenza di qualsiasi preoccupazione. Quando mi criticava, le dicevo che mi dispiaceva ma che “nessuno è perfetto” e non potevo dire o fare sempre la cosa giusta”
Risposta del paziente al mutato atteggiamento della terapeuta: Dolores ha finito per identificarsi con la sicurezza in sé stessa mostrata dalla terapeuta (per il fatto che non era ferita dalle sue critiche) e dalla sua assenza di preoccupazione (non reagiva al suo panico).
Come nel caso di Mary, anche il comportamento di Dolores in terapia era un test da passivo-in-attivo per compiacenza in risposta al quale la terapeuta aveva modellato un atteggiamento appropriato che la paziente aveva finito per adottare.

Gli ultimi due casi, quelli di Samir e Gordon, riportati da Weiss (2005), sembrano adottare un testing di transfert per non compiacenza (Gazzillo et al., 2019). Ancora una volta, mi limiterò a descrivere gli aspetti più importanti dei due casi.

Samir

Samir non ha mai parlato delle ragioni per cui ha cercato una terapia, non si è mai lamentato di nulla, né ha identificato gli obiettivi del suo trattamento. Si limitava a parlare di una varietà di argomenti che non avevano nulla a che fare con i suoi problemi e respingeva i tentativi del terapeuta di focalizzarsi sul motivo per cui era andato in terapia.
Motivi per cui aveva deciso di iniziare una terapia: come già detto, non parlava né dei suoi problemi né dei suoi obiettivi. Il suo medico aveva detto a Weiss che era depresso. Weiss aveva inferito che avesse inibizioni lavorative.
Traumi principali: Madre depressa, critica, intrusiva, scoraggiante
Credenza patogena: Non posso trovare soluzioni da solo. Non mi va di lavorare perché mi aspetto che gli altri mi criticheranno.
Atteggiamento iniziale del paziente: Esibiva la sua expertise. Parlava di ciò che voleva.
Atteggiamento del terapeuta: Si era reso conto del fatto che il paziente si sentiva pressato e intruso dalle interpretazioni e per questo aveva deciso di ascoltarlo e chiacchierare con lui di qualsiasi cosa lui volesse parlare.
Risposta del paziente al mutato atteggiamento del terapeuta: Si era sentito incoraggiato e supportato. E si era sentito libero di riprendere a lavorare.
A differenza di Mary e Dolores, Samir testava nel transfert (e da passivo-in-attivo) per non compiacenza. Cioè, provava a fare ciò che voleva e al tempo stesso modellava per il terapeuta il tipo di atteggiamento che avrebbe voluto vedere in sua madre.

Gordon

Motivi per cui aveva deciso di iniziare una terapia: difficoltà a prendere l’iniziativa. Le cose da fare lo facevano sentire teso e nervoso.
Traumi principali: Si sentiva dominato dalle ambizioni che il padre aveva per lui e dal fatto che il padre avesse un piano su come lui dovesse vivere la sua vita. Se lui deviava da questo piano, il padre si innervosiva.
Credenza patogena: è pericoloso pensare con la propria testa. Non bisogna prendere nessuna iniziativa.
Atteggiamento iniziale del paziente: Prende le redini della terapia. Dice al terapeuta quali sono i suoi obiettivi, come vuole lavorarci, e cosa vuole che il terapeuta faccia per aiutarlo.
Atteggiamento della terapeuta: accetta il piano del paziente.
Risposta del paziente al mutato atteggiamento del terapeuta: Gordon si sente al sicuro nel prendere le redini del trattamento e nel permettersi di pensare a ciò che vuole. Prende più iniziative sia nella vita professionale sia in quella personale.
Gordon testa nel transfert per non compiacenza, e al tempo stesso testa da passivo-in-attivo per compiacenza. Dice chiaramente al terapeuta cosa vuole che lui faccia, che atteggiamento vuole che assuma, cosa che è in stridente contrasto con quanto poteva fare con il padre, ma molto a simile a quanto faceva il padre con lui.

Gli esiti di questi quattro trattamenti sono stati positivi, anche se raggiunti per vie diverse. Sono state tutte terapie lunghe, con pochi momenti interpretativi o di analisi vera e propria. Nei casi di Shilkret, la terapeuta ha manifestato un atteggiamento specifico con ogni paziente, quello che sarebbe stato adattivo che quella paziente assumesse in risposta ai traumi di cui aveva fatto esperienza. Le pazienti avevano fatto propri questi atteggiamenti, identificandosi con la terapeuta. Nei due casi riportati da Weiss, i pazienti avevano adottato fin da subito un atteggiamento che costituiva una risposta adattiva ai traumi che avevano subito, e Weiss li aveva supportati in questo.
Cosa distingue questi casi descritti come “trattamenti per mezzo degli atteggiamenti” da quelli più convenzionali? Perché questi pazienti non erano in grado, o non volevano, adeguarsi alle psicoterapie più convenzionali? Una spiegazione possibile è che sono casi in cui i pazienti testano in un modo specifico. In Come funziona la psicoterapia, Weiss (1993) descrive così quelli che chiama i test attraverso l’atteggiamento:

ci sono delle terapie in cui il paziente, invece di sottoporre a verifica le proprie credenze patogene in prove distinte, tenta di disconfermarle con un atteggiamento costante nel tempo, che ha la funzione di un test. Per esempio, un paziente vuole disconfermare la credenza che verrà rifiutato ogni volta che si mostrerà cordiale. Può farlo con manifestazioni di affetto occasionali e precise, oppure con un atteggiamento costantemente amichevole. Il terapeuta deve assumere un atteggiamento che aiuti il paziente a disconfermare la sua credenza (idem, p. 93)

Credo che i quattro casi descritti siano esempi di un testing di questo tipo. In ognuno di essi il paziente sembra testate le sue credenze patogene, sia nel transfert sia da passivo-in-attivo, in un modo persistente.
L’atteggiamento del terapeuta è un fattore chiave in tutte le terapie. Il ruolo giocato dall’atteggiamento nel trattamento varia da paziente a paziente a seconda della natura delle credenze e dei conflitti trattati. Quindi, qual è l’atteggiamento appropriato? In termini assolutamente generali, un atteggiamento che aiuti il paziente a modificare le credenze patogene che ha rispetto a sé stesso. Quale sia questo atteggiamento ovviamente varia da paziente a paziente e da fase a fase della terapia, ed è caso specifico. Un paziente che è stato traumatizzato da genitori troppo intrusivi e controllanti può sentirsi al sicuro con un terapeuta che manifesta un atteggiamento flessibile, laissez-faire, mentre un paziente che si è sentito trascurato e abbandonato dai genitori potrebbe essere ritraumatizzato da un atteggiamento del genere. Una comprensione adeguata dei traumi di cui il paziente ha fatto esperienza, e delle credenze patogene che ha sviluppato, può guidare il terapeuta nella scelta della risposta ottimale, e di quale atteggiamento assumere con un paziente dato. Io avanzo l’ipotesi che un paziente risponda a un atteggiamento appropriato da parte del terapeuta come risponderebbe a un test superato. In casi come quelli riportati da Shilkret e Weiss, nei quali il paziente cerca di disconfermare le sue credenze patogene mostrando un atteggiamento persistente che ha la funzione di test, il terapeuta deve assumere un atteggiamento che supporti la “non-compiacenza” adeguata del paziente o modelli un atteggiamento che per il paziente potrebbe essere utile assumere.

 

References

Gazzillo, F., Genova, F., Fedeli, F., Curtis, J. T., Silberschatz, G., Bush, M., & Dazzi, N. (2019). Patients’ unconscious testing activity in psychotherapy: A theoretical and empirical overview. Psychoanalytic Psychology, 36(2), 173–183.
https://doi.org/10.1037/pap0000227
Meriam-Webster (1966), Webster’s new world dictionary of the American language.
Sampson, H. (1994, Fall). Treatment by attitudes. SFPRG Process notes, 8-15.
Sampson, H. (2005). Treatment by attitudes. In G. Silberschatz (Ed.) Transformative relationships: The Control-Mastery theory of psychotherapy (pp. 111-119). Rutledge
Shilkret, C.J. (2006). Endangered by Interpretations: Treatment attitude of the narcissistically vulnerable patient. Psychoanalytic Psychology, 23 (1), 30-42.
Silberschatz, G. (2005). Control-Mastery theory. In G. Silberschatz (Ed.) Transformative relationships: The Control-Mastery theory of psychotherapy (pp. 3-23 ). Rutledge
Weiss, J. (1993). How psychotherapy works. Guilford.
Weiss, J. (2005). Safety. In G. Silberschatz (Ed.) Transformative relationships: The Control-Mastery theory of psychotherapy (pp. 31-42). Rutledge

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