Note pratiche sull’utilizzo del piano

Note pratiche sull’utilizzo del piano

 di Francesco Gazzillo 

In queste poche pagine vorrei condividere con il lettore alcune osservazioni, fatte nel corso di più di dieci anni di pratica clinica e riflessione teorica nell’ottica della Control-Mastery Theory. 

Per chi lavora da questa prospettiva, la centralità del concetto di piano e della sua formulazione è ovvia: noi pensiamo che i pazienti vengano in terapia con un loro piano in gran parte inconscio, e che il compito del clinico è quello di comprendere questo piano, formularlo nel modo più preciso possibile dopo le prime due o tre sedute, e poi seguirlo. A guidare la terapia, e a stabilire l’ordine del giorno, è quindi il paziente, e il compito del clinico è quello di comprendere ciò che il paziente sta cercando – gli obiettivi che vuole perseguire, le credenze patogene che vuole disconfermare, i traumi che vuole padroneggiare e le manifestazioni di compiacenza e identificazione a essi connessi, in che modo ci potrà mettere alla prova e come vorrebbe che noi gli rispondessimo, gli insight che potrebbe voler ottenere – e cercare di aiutare il paziente a ottenerlo.

Una prima cosa che vorrei sottolineare al riguardo è che una buona formulazione del piano deve essere comprensiva e completa, ma anche sintetica. Tre o quattro pagine al massimo. Un piano di dieci pagine è una pessima guida; non è una mappa, ma una cattiva rappresentazione di un territorio.

In secondo luogo, con il tempo mi sono persuaso che un compito molto utile da svolgere dopo aver formulato il piano è la sua sintesi in un massimo di 10 righe: il clinico, se ha formulato il piano in modo corretto il piano, dovrebbe essere in grado di descrivere in dieci righe qual è il nucleo del piano di questo paziente. Solo per fare due esempi, penso a una cosa del tipo: 

X è una ragazza di poco più di venti anni che non riesce a costruire una relazione d’amore stabile e reciprocamente appagante perché, essendo stata maltratta e trascurata da entrambi i genitori e da altre figure di rilievo, si è convinta di essere pesante e poco amabile, e per questo tende a scegliere partner emotivamente poco disponili e spesso disturbati e a chiedere loro dimostrazioni di amore assoluto e incondizionato fin da subito, mentre lei mostra il peggio di sé. Inoltre, X ha paura di essere come la madre, che ha avuto una serie di relazioni sentimentali disastrose e che le ha sempre detto che avrebbe fatto la sua stessa fine.

Y è un uomo di poco più di cinquant’anni che vorrebbe riuscire a essere meno ansioso ma non ce la fa perché pensa che deve occuparsi del benessere di tutte le persone che ama, e soprattutto dell’anziana madre; avendo perso il padre quando era piccolo, ed essendo il primo figlio, la madre gli ha chiesto da sempre di occuparsi di lui e delle sorelle minori, scoraggiando qualsiasi forma di autonomia e realizzazione personale in lui.

Credo che questo esercizio delle 10 righe sia utile al clinico sia per comprendere se è riuscito a elaborare una formulazione del piano coerente e comprensiva, sia perché come guida di massima per affrontare le sedute è impraticabile, e sarebbe persino controproducente, provare a imparare a memoria il piano in tutti i suoi dettagli. Al piano si ritorna nelle prime 4 o 5 sedute, o in momenti di difficoltà. Ma negli incontri quotidiani ciò che in genere è più utile avere a mente è una sintesi del genere.

Una terza osservazione che credo sia utile è quella per cui, in una specifica seduta, un paziente non lavora su tutto il suo piano, ma solo su alcuni suoi elementi; detto in altro modo, credo sia utile pensare all’esistenza sia del piano del paziente per la terapia, sia del piano per la seduta. In ogni seduta, e per la verità spesso per settimane intere, ogni paziente lavora per raggiungere un obiettivo, per disconfermare una o due credenze patogene, per elaborare uno o pochi traumi che sono alla base di queste credenze, e utilizza una o due strategie di testing prevalenti. Questi elementi compongono il piano della seduta, o del periodo di terapia. È piuttosto frequente che questo “piano della seduta” sia comprensibile già a partire dalla prima comunicazione che fa il paziente in seduta; altre volte, nella mia esperienza leggermente meno frequenti, per comprenderlo è necessario ascoltare le prime due o tre associazioni del paziente, sempre che, ovviamente, il terapeuta abbia avuto il buon senso di non iniziare la seduta con domande specifiche e di non essere intervenuto subito, magari “tanto per dire qualcosa”. E, ovviamente, quando parlo della prima o delle prime comunicazioni, intendo sia ciò che il paziente dice sia ciò che “chiede” in modo implicito o esplicito al terapeuta. Incidentalmente, è proprio perché in ogni seduta o periodo di terapia il paziente lavora su un pezzetto del suo piano, sul “piano della seduta”, appunto, che non bisogna mai dare per scontato che il modo in cui ieri o un mese fa abbiamo risposto a una comunicazione del paziente sia il modo in cui è opportuno rispondergli ora. Per capire se, cosa e come fare in una seduta, dobbiamo prima capire quale sia il piano del paziente per quella seduta, che è una parte del suo piano per la terapia, non tutto. Se è di fatto impossibile lavorare, come Bion suggeriva, “senza memoria né desiderio”, è altrettanto assurdo pensare che, formulato il piano del paziente, noi sappiamo di preciso cosa dobbiamo fare in ogni seduta; nei fatti, il piano è una bussola potente, ma noi dobbiamo guardare il territorio in cui dobbiamo muoverci e tenere conto di tutte le sue peculiarità. Se puntiamo a nord ma non vediamo un masso, il massimo che ci possa succedere è che ci facciamo male e cadiamo, mentre cercavamo di arrivare a nord.

Un ultimo punto che vorrei sottolineare è che spesso i terapeuti più giovani sembrano trascurare, per timore di ferire i pazienti, la necessità di proteggerli dalle componenti autopunitive dei loro test. Spesso si legittimano pretese assurde, si minimizzano i problemi che i pazienti segnalano in modo diretto o indiretto per non farli sentire in colpa o inferiori e non far loro provare vergogna; si sostengono tentativi di realizzare obiettivi piuttosto chiaramente destinati all’insuccesso; si legittimano modi di fare che alieneranno inevitabilmente gli altri o porteranno a esiti negativi; si crede a cose la cui veridicità è chiaramente molto limitata ecc. Ora, è vero che la necessità di superare i test ha la priorità su tutto, ma è altrettanto vero che spesso i pazienti insistono nel testare in un certo modo, e/o nel riferirci del modo in cui stanno testando qualcuno con esiti chiaramente negativi, perché in quel modo si stanno anche punendo e mettendo nei guai e vorrebbero che noi gli dimostrassimo che meritano di essere protetti. Come un bambino che continua a fare una marachella pericolosa sotto gli occhi dei genitori ha bisogno sì di essere visto senza essere punito, ma spesso ha bisogno, oltre che di essere visto e non punito, anche di essere fermato. E, implicitamente, sta chiedendo al genitore di esercitare la sua autorità in modo protettivo – non accusatorio, rabbioso o punitivo, ma in modo fermo e autorevole. Essere terapeuta significa prendersi cura di altre persone, e prendersi cura non è sempre e solo coccolare, sostenere, comprendere, perdonare, tranquillizzare; a volte prendersi cura implica anche essere fermi, guardare in faccia la realtà, aiutare a prenderne consapevolezza e fare i conti con i propri limiti e le proprie difficoltà. È un lavoro che necessita tanto di lati “materni” quanto di lati “paterni”, di vedere le cose dalla prospettiva soggettiva del paziente senza però perdere di vista la prospettiva degli “altri”. E, soprattutto, senza perdere di vista il fatto che esiste una realtà che può non essere ideale per il paziente e per il clinico, ma che resta reale e può essere modificata solo in parte. 

Per quanto ti possa non piacere, se abusi di droghe ti fai del male; se non riesci a fare a meno dell’alcol, ne dipendi; se pretendi che chiunque ti stia attorno debba mettere sempre te al centro, finirai per rimanere solo; se non ti dai da fare, non potrai avere successo in nulla; il solo modo per evitare di invecchiare è morire giovani;  non puoi costringere un altro a volere qualcosa che non vuole; non puoi chiedere a un altro di darti qualcosa che tu non sei disposto a dargli o che lui non è in grado o non vuole darti; se vuoi essere libero di fare ciò che vuoi, devi accettare che anche chi ti sta vicino lo sia; non puoi evitare a nessuno di stare male, e non puoi nemmeno rendere felice qualcuno se l’altro non fa la sua parte; se non affronti ciò che temi, ne avrai sempre timore; non puoi conquistare l’amore o la comprensione di qualcuno con la rabbia, la fuga, l’arroganza o il disprezzo; da adulto non puoi essere amato in modo incondizionato da un altro adulto. 

Non è detto che cose di questo tipo vadano sempre dette a un paziente, ma di sicuro è importante che il paziente arrivi a vederle con chiarezza; ed è difficile che un clinico che non le abbia chiare per primo possa aiutare un paziente a vederle. Cosa che chiaramente mette al centro della formazione del clinico la sua terapia personale.

Un ultimo punto, connesso a quello precedente, è che una comprensione accurata del piano del paziente è utile anche al clinico per aiutare il paziente a comprendere perché pensa, prova e fa delle cose che lo fanno soffrire, e se è vero che la capacità del terapeuta di superare i test del paziente facilita in quest’ultimo l’acquisizione di insight su di sé, è anche vero che, a meno che non ci siano chiare indicazioni che questo possa essere anti-plan, è uno dei compiti del clinico quello di fornire interpretazioni. Interpretare significa formulare ipotesi esplicative la cui utilità può essere compresa solo a posteriori, sulla base delle reazioni del paziente a esse; molti clinici giovani, invece, sembrano pensare che le interpretazioni siano verità assolute che possono condannare chi le riceve a un destino ineluttabile, affermazioni moraleggianti, sentenze divine, segni di arroganza o critiche. Da una prospettiva CMT, invece, le interpretazioni pro-plan hanno come esito quello di incrementare il senso di sicurezza inconscio del paziente, e quindi di aiutarlo a realizzare il suo piano. Interpretare è un modo per permettere al paziente di comprendersi meglio e di sviluppare un maggiore controllo su di sé. Non è un’attività da temere. E non è una reazione emotiva negativa immediata di un paziente il segno migliore per comprendere se l’interpretazione era pro-plan. Ancora una volta, è necessario vedere cosa succede dopo, se il paziente porta materiale di conferma e, soprattutto, se migliora.

Scarica l’articolo completo in PDF: Note pratiche sull’utilizzo del piano di Francesco Gazzillo (2025)

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