L’eterna condanna di Narciso
di Eleonora Fiorenza
Di narcisismo si è parlato e scritto tanto. Il primo a introdurre tale concetto in psicoanalisi è stato Freud nel 1914 con il suo scritto “Introduzione al narcisismo”. Kohut (1977), a differenza di Freud che vedeva il fenomeno del narcisismo come un investimento libidico dell’Io e come una fase dello psicosessuale il cui superamento è essenziale per accedere alla salute mentale, propone l’esistenza di un narcisismo sano che si manifesta, nelle diverse fasi dello sviluppo, in forme diverse, e che comprendere i bisogni di ammirazione, idealizzazione e fratellanza tipici di tutti gli esseri umani. Lo sviluppo di un disturbo narcisistico, in quest’ottica, deriverebbe dall’incapacità dei genitori di fornire al bambino adeguate risposte empatiche, incapacità che può tradursi in critiche eccessive, svalutazione, trascuratezza, difficoltà a incarnare un ideale per il piccolo ecc. Nel DSM-5TR (APA, 2015), oltre ai criteri diagnostici connessi alla presenza di grandiosità, fantasie ipertrofiche, costante necessità di ammirazione, mancanza di empatia, arroganza e invidia, le persone con Disturbo Narcisistico di Personalità mostrano un’eccessiva vulnerabilità alle critiche, sentimenti intensi di rabbia, vergogna e senso di umiliazione, mancanza di consapevolezza del proprio comportamento e delle difficoltà che crea negli altri e difficoltà a stabilire relazioni interpersonali profonde e durature.
Dal punto di vista della CMT, termini come “tratto narcisistico” e “disturbo narcisistico di personalità” dicono poco su come lavorare in terapia con questi pazienti. Come sempre, ciò che è centrale per condurre un lavoro efficace è progettare una psicoterapia caso specifica sulla base del piano inconscio del paziente.
Date tali premesse, trovo interessante portare una riflessione sulle sfide cliniche che i pazienti con temi narcisistici ci pongono costantemente. Dal punto di vista della ricerca, sappiamo che le credenze che più associano a un’importante compromissione di personalità sono quelle che hanno a che fare con l’odio di sé: la sensazione di essere immeritevoli di felicità, amore e cure, di essere intrinsecamente sbagliati, danneggiati, cattivi o dannosi. Tuttavia, anche pazienti che in apparenza sembrano più funzionali possono presentare tematiche connesse al valore e all’autostima. Sono quelle persone che vivono una sensazione di costante insoddisfazione; nonostante raggiungano degli obiettivi, ricevano qualche soddisfazione, nulla li riempie mai veramente, sentono di non poter avere mai ciò che desiderano. Sperimentano spesso un senso di vuoto (su questo, Santodoro, Fiorenza, Mannocchi e Gazzillo hanno appena terminato un lavoro di ricerca che indaga la correlazione tra il senso di vuoto e varie dimensioni psicopatologiche, tra cui i tratti narcisistici e borderline), sentimenti negativi come tristezza, ansia. Sono persone costantemente recriminative, profondamente arrabbiate, che vivono come se il mondo avesse fatto loro un’ingiustizia e debbano essere risarciti di un qualche tipo di danno atavico.
Se si ripercorrono le storie familiari di questi pazienti, ciò che colpisce è che non sempre ci troviamo di fronte a traumi macroscopici come abusi, grave trascuratezza o abbandono. Sicuramente in situazioni come queste è più probabile che si sviluppino credenze relative all’odio di sé, con l’idea che ciò che ci è successo ce lo siamo in qualche modo meritato; tuttavia, i pazienti con queste tematiche spesso hanno avuto genitori che hanno anteposto i propri bisogni o desideri a quelli del figlio/a; oppure genitori freddi, distanti, che non si sono mostrati affettivamente coinvolti e genuinamente empatici e sintonizzati con le necessità del figlio/a. Sono anche quei genitori per cui l’amore e le attenzioni passano solo attraverso atti performativi (se vai bene ad un’interrogazione ti riempio di complimenti, mi vanto di te, ma per il resto del tempo non ti considero e ti trascuro). O ancora, sono genitori che a loro volta soffrono a causa di problemi narcisistici per cui hanno difficoltà a riconoscere il bambino come entità separata da sé, con i propri bisogni.
La peculiarità di queste persone è che, a livello relazionale, spesso sono molto problematiche e tendono a vivere i rapporti con gli altri esclusivamente in relazione al proprio valore. Le relazioni sono distinte in due macro-categorie: rapporti che mi fanno sentire di avere valore vs rapporti che mi fanno sentire svalutato/a. Sulla base di questa dicotomia, l’altro non viene visto; fanno fatica a percepire, così come hanno vissuto nel rapporto con i genitori, che esiste un altro diverso da sé con dei propri bisogni, vissuti, emotività. Per queste persone non c’è spazio per altro, perché sono troppo spaventate dall’idea di dimostrare quanto poco valgano e tutti i loro sforzi sono volti a mantenere un’immagine di sé positiva. Il problema sorge laddove, all’interno dei rapporti più importanti, nel tentativo di disconfermare l’idea di essere intrinsecamente cattivi, finiscono proprio per confermarla.
Ho in mente un paziente che ha come schema ricorrente il seguente: sente che non merita le attenzioni delle donne perché si sente brutto e insignificante; nel momento in cui gli piace una ragazza, la idealizza, la rende “l’amore della sua vita”, farebbe qualsiasi cosa per conquistarla, la pensa, la sogna ecc. Ma quando la ragazza in questione ricambia e si mostra coinvolta, in un primo momento ne è felice, ma la cosa dura qualche settimana appena. Poi, “conquistata”, il mio paziente perde d’interesse, comincia a nutrire dubbi sul fatto di essere davvero interessato a lei, si mostra distante, emotivamente freddo. Questo, naturalmente, è spiazzante per l’altra persona, che si vede inizialmente corteggiata e desiderata e poi improvvisamente si trova ad avere a che fare con una persona fredda e sfuggente. Quindi, quello che solitamente accade è che il mio paziente viene lasciato (non in maniera pacifica la maggior parte delle volte) e si deprime. Questa dinamica gli conferma esattamente quello che vorrebbe evitare: sentirsi cattivo e dannoso per gli altri.
Questo breve esempio spero chiarisca quello che prima esponevo teoricamente: ciò che fa soffrire il mio paziente non è il pensiero di aver arrecato un danno a un’altra persona, o meglio, lo è, ma nella misura in cui questo fa sentire lui stesso cattivo – sminuisce, cioè, il suo valore. L’empatia come la si intende comunemente, infatti, cioè la capacità mettersi nei panni di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro (Treccani), è una capacità che questi pazienti possiedono solo limitatamente e in senso più “strumentale”: fare qualcosa di buono per l’altro, consolarlo, sostenerlo, “serve” a loro per sentirsi persone buone e quindi, di nuovo, per disconfermare le credenze connesse all’odio di sé.
Senza ombra di dubbio, sono pazienti con cui è complesso lavorare. Cynthia Shilkret (2006) sosteneva che per disconfermare le loro credenze patogene, più che le interpretazioni dei contenuti, fosse utile lavorare attraverso l’atteggiamento. La questione che io trovo piuttosto spinosa e di cui discuto spesso con i miei colleghi a studio è però la seguente: è davvero sufficiente questo atteggiamento a promuovere un cambiamento in questi pazienti?
Spesso mi capita di trovarmi di fronte un paradosso; da una parte, quando questi pazienti mi raccontano di situazioni relazionali negative o in cui si sono comportati male (test di transfert per compiacenza all’odio di sé), per disconfermare la loro credenza patogena e superare i loro test in linea teorica io dovrei far sentire al paziente che ciò che dice di sé non è vero, che non è vero che fa schifo, è cattivo, ecc. Allo stesso tempo, però, spesso queste persone adottano realmente dei comportamenti che non fanno altro che portare gli altri ad allontanarsi e rifiutarli. Se io dovessi confrontarli su questo, però, fallirei i loro test di transfert per compiacenza sull’odio di sé: gli confermerei che gli altri si allontanano e li abbandonano perché in effetti se lo meritano, perché sono sbagliati. Essendo pazienti iper-sensibili al giudizio e alle critiche, anche in terapia cercano continue conferme del fatto che vanno bene – mettendo in atto dei test di transfert per ribellione sull’odio di sé. L’oscillazione, spesso repentina e all’interno della stessa seduta, tra queste modalità di testing (di transfert per compiacenza e ribellione, e da passivo in attivo per compiacenza nei confronti dei partner a spesso anche del terapeuta) rende difficile al clinico scegliere il modo migliore di rispondere.
Lungi dall’essere giunta a una soluzione di questo dilemma, ho l’impressione che questa condizione di apparente impasse – da una parte, lavorare con l’atteggiamento, facendoli sentire accolti e non giudicati, dall’altra essere più confrontativi per promuovere una maggiore consapevolezza del loro contributo ai problemi relazionali in cui incorrono, per proteggerli da eventuali rifiuti o ritraumatizzazioni – credo rifletta quello che queste persone hanno sperimentato nel corso della loro vita in rapporto alle figure di riferimento (in altre parole, sia un test da passivo in attivo del loro odio di sé). L’impotenza, la frustrazione, la rabbia, la sensazione che non sia mai abbastanza e che qualsiasi cosa si scelga di fare si rischia di sbagliare credo sia il crinale su cui questi pazienti, prima bambini, si sono costantemente trovati a camminare. A volte, entrare con loro in un rapporto davvero genuino e spontaneo è davvero complesso (oltre al fatto che il concetto di “reciprocità” sembra totalmente assente in loro). Mi capita di avere l’impressione che abbiano una sorta di patina oleosa addosso che gli fa scivolare tutto. Non trattengono cose buone, rapporti buoni, esperienze buone, sempre alla ricerca del modo in cui possono colmare un vuoto che però non si riempie mai.
Forse, una via d’accesso per noi terapeuti potrebbe essere quella di sintonizzarci con il loro nucleo sofferente, riuscire a vedere il bambino umiliato, confuso e rabbioso che soffre, fornendo loro un’esperienza diversa dai genitori, facendogli sentire che per noi vanno bene così come sono, che non stiamo cercando di cambiarli o “aggiustarli” e che c’è differenza tra comportarsi in modo disfunzionale ed essere disfunzionale; allo stesso tempo, rimandare loro un feedback di realtà, confrontarli rispetto al fatto che se ci si comporta in un determinato modo con qualcuno, è possibile andare incontro a rifiuto e frustrazione in termini relazionali, ma anche lavorativi, amicali ecc.
Nel corso di una delle ultime sedute, il paziente di cui accennavo prima mi ha detto “Alla fine, il punto è che io penso che non merito la felicità. Mi comporto di merda, mi sento in colpa, sono infelice, poi mi ci crogiolo in questo. Ci credo così tanto che faccio in modo che accada”.
Il termine “narcisismo” deriva dal mito greco di Narciso, che racconta di un giovane ragazzo bellissimo che si specchia in un torrente e finisce per innamorarsi della sua stessa immagine. Ma Narciso rifugge anche da qualsiasi tipo di contatto con un altro essere umano; si potrebbe dire perché si sente talmente superiore da bastare a sé stesso. Oppure, forse, aprirsi realmente all’altro è troppo pericoloso. Forse, intimamente, Narciso si detesta.
Riferimenti:
APA (2015). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – Quinta edizione (DSM-5), Milano: Raffaello Cortina.
Freud, S. (1914). Introduzione al narcisismo. In OSF, Vol. 7, Torino: Bollati Boringhieri.
Kohut, H. (1977). Narcisismo e analisi del sé. Torino: Bollati Boringhieri.
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