La solitudine del sopravvissuto

La solitudine del sopravvissuto

di Cristina Mazza

Stimolata dalla visione di Parthenope, l’ultimo film di Sorrentino, e dalla lettura dello scritto Note cliniche sul “superamento” dell’odio di sé di Francesco Gazzillo, ho pensato potesse essere di una qualche utilità condividere un’ipotesi che mi torna in mente ogniqualvolta ho a che fare con pazienti con tematiche prevalenti legate al senso di colpa del sopravvissuto, a un certo punto della terapia.

“Professoressa, non si sa molto della sua vita personale, perché non si è fatta una famiglia?” “Perché mi sono fatta le domande sbagliate”, risponde la protagonista del film di Sorrentino alle sue allieve, congedandosi dopo quarant’anni di carriera accademica in una delle scene finali del film.

Ecco, le domande sbagliate. 

Parthenope, un’ammaliante Celeste Dalla Porta, ancora adolescente, perde il fratello poco più grande di lei durante una vacanza a Capri, suicida. Una vacanza di gioventù, quella che stavano trascorrendo lei, il fratello poco più grande e un amico d’infanzia. Sceneggiatura vuole che il fratello si getti da una scogliera dopo aver intravisto il consumarsi di un rapporto sessuale tra l’amata sorella e l’amico di sempre, e da sempre innamorato di lei. Di questo la madre la incolpa e il padre si abbandona alla passività, cercando di stordirsi davanti alla tv. 

Sappiamo come il senso di colpa del sopravvissuto (Gazzillo et al. 2021, Fimiani, Gazzillo, Dazzi, Bush, 2021) è alimentato da credenze patogene per cui avere qualcosa in più delle persone care è vissuto come ingiusto, iniquo, una manifestazione di egocentrismo. E sappiamo anche come questo senso di colpa sia estremamente violento, soprattutto se a farla da padrone nel funzionamento psichico del paziente sono dinamiche di compiacenza. Per metterlo a tacere, il paziente si priva di esperienze, concrete o relazionali che siano. Se questo spesso accade nelle fasi iniziali della terapia, e se le cose vanno per il meglio, con il progredire del lavoro il paziente tenderà ad automutilarsi di meno, ribellandosi alla credenza e al senso di colpa annesso. E fino a qui, tutto ben noto. 

Ma passata una prima fase iniziale piuttosto entusiastica, trovo che molti di questi pazienti debbano “fare i conti” con il prezzo della loro ribellione, e non mi riferisco qui al possibile correlato autopunitivo. Ma al costo di una ribellione sana. Al dazio emotivo che implica il voler evolvere, e quindi distaccarsi e differenziarsi dalle proprie origini, dalla propria storia, dalla propria provenienza. Perché trovo che un costo questo processo lo abbia, eccome. 

Spesso dai racconti dei pazienti, e francamente anche in molte discussioni cliniche collegiali, sembra che avere qualcosa in più rispetto alla famiglia d’origine, o anche il solo desiderarlo, non possa che essere positivo. Hai vinto un concorso, ti sposi, guadagni bene: non si può non essere contenti. O meglio, non si può che essere solo contenti. Ma questo non è vero, o almeno, credo non sia vero per la maggior parte dei pazienti. Quel processo di “differenziazione incrementale” porta a una distanza, fa sentire che si perde un senso di “appartenere a”, di “essere parte di”. In altre parole, fa sentire tremendamente soli. 

A mio avviso, però, non si dovrebbe scambiare quel vissuto di solitudine per un’autopunizione o una forma di compiacenza, considerandolo -e interpretandolo- come contrario al progredire della terapia. Un concetto analogo a quello a cui fa riferimento Gazzillo quando scrive che per i pazienti con tematiche prevalenti di odio di sé il descrivere modi di essere -e di fare- non troppo funzionali durante le ultime sedute di terapia non implichi necessariamente solo un test di transfert per compiacenza sull’odio di sé, che il terapeuta dovrebbe gestire tramite interventi supportivi atti a disconfermare la credenza patogena sottostante, ma possa rappresentare la consapevolezza che si è come si è, con i propri limiti.

Così come si può convivere con, e integrare, aspetti “meno buoni” di sé, anche il poter accettare, tollerare e integrare i vissuti di solitudine può portare i pazienti con tematiche legate al senso di colpa del sopravvissuto più a contatto con sé stessi e può favorire lo sviluppo di modalità più efficaci di stare in relazione o di cercare relazioni. 

Accettare e comprendere questi vissuti di solitudine diventa a mio avviso imprescindibile anche per altri due motivi: aiuta il paziente a sentirsi meno “alieno” dagli altri e meno alienato da sé per il fatto che prova quel che prova. Secondo, lo aiuta a non ricadere in vecchi schemi e comportamenti che spesso sono generati proprio dalla sensazione che quella solitudine sia insopportabile.

Olivia è un giovane donna di 29 anni che all’inizio della terapia faceva un lavoro che non le piaceva ed era notevolmente al di sotto del suo livello culturale; portava avanti una relazione decennale con un ragazzo poco ambizioso dal quale spesso non si sentiva supportata e con quale spesso litigava. Ma il femminile della sua famiglia le aveva insegnato che da una relazione non si scappa. La madre e il padre, da sempre in conflitto aperto per le piccole cose del quotidiano, non si sono mai separati; così la sorella maggiore, apertamente insoddisfatta della relazione con un uomo che aveva deciso di occuparsi della casa e della famiglia e di non lavorare. Olivia oggi continua il lavoro che aveva, ma è di nuovo iscritta all’Università e ha lasciato l’ex compagno. Ha fiducia nelle scelte che ha fatto e ha cominciato una frequentazione con un altro ragazzo. Un ragazzo dal passato tormentato, al limite della legalità, che spesso si trascura nell’igiene, e con il quale può condividere poco dei suoi interessi. In seduta è sempre molto chiara: quello che vuole è chiudere questa relazione. Spesso, però, uscita dalla seduta, è proprio con lui che va a cena. 

Credo che quello che sta succedendo a Olivia ben descriva quello che provavo a chiarire più da un punto di vista teorico nelle righe precedenti. Credo che Olivia, che ormai vive da sola da tre anni, stia sperimentando un inconsolabile senso di solitudine che tenta di colmare con una relazione che è fallimentare più che costruttiva, che le porta via tempo ed energie, che la ostacola nell’andare a cercare relazioni più adatte alla persona che è ora, per l’espressione della quale ha lavorato faticosamente. 

Sto lavorando con Olivia perché possa riconoscere come si sente, e cerco di trasmetterle che è legittimo sentirsi soli, che questo può accadere nonostante tutte le esperienze positive che sta collezionando. Cerco di aiutarla a riconoscere quella solitudine senza mistificarla. Cerco di aiutarla a prendere consapevolezza che quella solitudine, talvolta così impetuosa, se non ascoltata, può spingerla a comportamenti che la allontanano da sé stessa.

Ma quella solitudine non è qualcosa “di sbagliato” di per sé, qualcosa che potrà sparire del tutto. Può, e deve, essere ascoltata e capita nella sua manifestazione. 

In qualche modo ne sperimentiamo tutti una forma fisiologica quando facciamo il lutto degli oggetti primari, nella transizione all’età adulta. Quando smettiamo di essere figli, e quando smettiamo di vivere i nostri genitori come creature onniscienti che guidano la nostra vita e da cui la nostra vita dipende. È quella solitudine nostalgica che vorrebbe farci sperimentare di tanto in tanto quella sana dipendenza, ancora una volta.

È una solitudine relazionale, quella del sopravvissuto, legata alla consapevolezza che non si può restituire felicità alle persone care in cambio della propria. Che il principio dei vasi comunicanti non funziona in questi casi, purtroppo o per fortuna. 

Ma è anche una solitudine individuale quella del sopravvissuto, legata a quella che da un punto in poi diventa la scelta di portare avanti se stessi nella miglior forma ed espressione possibile. Si tratta di poter fare il lutto che la persona che siamo stati e che sentiva di appartenere a una famiglia in cui quello che abbiamo realizzato era impensabile, imparando a tollerare che un po’ di quella solitudine la porteremo con noi, e che con quella solitudine il paziente potrà imparare a convivere senza che questa, sordidamente, possa diventare sabotante. 

In realtà, credo si tratti di una solitudine che, così intesa, possa essere sperimentata in generale da tutti i pazienti, qualsiasi siano i sensi di colpa che li abbiano portati in terapia. È quella solitudine legata al cambiamento, che spesso rende difficile al paziente riconoscersi nelle prime fasi di cambiamento.

E, forse, le reazioni che oscillano tra il definire Parthenope il “peggior Sorrentino” e “un capolavoro di libertà e dolore” rappresentano l’antica difficoltà dell’essere umano di tollerare l’ambivalenza: sentirsi felici ma al tempo stesso un po’ soli.

 

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