Due idee
di Francesco Gazzillo
Che cosa significa disconfermare una credenza patogena?
Una delle espressioni più frequenti nella letteratura sulla Control-Mastery Theory è “disconfermare le credenze patogene del paziente”. Ma che cosa significa?
Di primo acchito chiunque può pensare, e augurarsi, che disconfermare una credenza patogena voglia dire che quella credenza viene cancellata, non è più ritenuta vera dal paziente, viene lentamente messa da parte come un lontano ricordo. Ma, come sa chiunque lavori da un po’ di tempo e sia sufficientemente onesto con sé stesso, il caso di una credenza patogena che sia stata cancellata dalla psiche di un paziente o che sia stata resa inattiva in via definitiva è assolutamente raro, seppure sia mai stato registrato. Una delle prove che testimoniano di ciò è il fatto che i pazienti testino fino alla fine di una terapia (Bush & Gassner, 1986; Gazzillo, Mannocchi et al., 2024), e per la verità testino anche dopo la fine di una terapia, nella loro vita quotidiana. Un’altra evidenza indiretta di questo stato di cose è il famoso “effetto Pfeffer” (1951, 1963) per il quale anche dopo la fine di una psicoanalisi di successo è possibile che i conflitti nucleari di un paziente si riattivino, influenzino il suo modo di rapportarsi agli altri e producano sintomi, solo che questa riattivazione ha una minore intensità rispetto a prima, è di durata più breve ed è meglio padroneggiata dal paziente stesso.
Queste evidenze lasciano pensare che disconfermare una credenza patogena significa non tanto eliminarla, quando sottrarle conferme e quindi ridurre il suo potere di plasmare il modo di pensare, sentire e agire del paziente, aprire uno spazio mentale all’elaborazione di altre credenze. Ma, oltre a ciò, credo che quello che accade in terapia è che aiutiamo i pazienti ad articolare le loro credenze patogene, a considerale credenze e non fatti, a individuarne le origini nella loro storia, le funzioni che hanno svolto e il modo in cui li hanno condizionati, e soprattutto li aiutiamo a sviluppare credenze nuove, più funzionali al loro benessere e al loro successo, più flessibili e “locali”. Li aiutiamo, per così dire, ad affrontare le loro esperienze con mente più sgombra e atteggiamento più positivo.
Il modo in cui lo facciamo, e gli assunti che sono alla base del nostro modo di lavorare, differenziano la CMT dagli altri approcci: noi partiamo dal presupposto che i pazienti vogliano liberarsi dalla presa delle loro credenze patogene perché le trovano costrittive e cupe in quanto fanno vivere loro con angoscia il perseguimento di obiettivi che, per definizione, noi pensiamo essere sani e realistici; inoltre, noi pensiamo che i pazienti vogliano diventare consapevoli delle loro credenze patogene e disconfermarle in modi attivi e specifici, cioè mettendo alla prova noi e le persone a loro care, testandoci; e pensiamo che siano i pazienti a decidere su cosa lavorare nelle diverse fasi e sedute della loro terapia, cioè che i pazienti abbiano un loro piano. Tutto ciò implica che il mezzo principale che abbiamo per aiutarli a disconfermare le loro credenze patogene è seguire le loro indicazioni di coaching e superare i loro test.
In un modello puro di terapia di successo in ottica CMT, il paziente testa il clinico, e quando lo fa è più in ansia e spaventato del solito; il clinico comprende e supera i test del paziente; il paziente è meno in ansia e meno depresso, si coinvolge di più nella relazione terapeutica, diventa più coraggioso e comprende meglio le sue credenze, da dove nascono, perché le ha sviluppate e come lo hanno condizionato, e progressivamente agisce, tenendole in minor considerazione, per raggiungere gli obiettivi da esse ostacolati.
Visto che la realtà esperita è diversa da quella temuta, nota la differenza, rivede le sue credenze e agisce di conseguenza (vedi Gazzillo, Mannocchi et al., 2004 per la ricerca più ampia su questo tema). Si creano così le condizioni affinché il paziente guadagni una maggiore libertà di sviluppare credenze nuove, più funzionali e più flessibili.
Ciò non toglie che spesso un lavoro interpretativo, o di ristrutturazione cognitiva, possa essere molto utile per aiutare il paziente in questi compiti; di fatto, spesso lo è. Ma, in linea assolutamente generale, un terapeuta CMT privilegia la dimensione dell’esperienza emotiva correttiva richiesta dal lavoro di coaching e testing del paziente. L’esperienza precede e guida il lavoro di elaborazione cognitiva consapevole, potremmo dire.
Una delle domande che ogni clinico che lavori da tempo si è fatto, però, è perché, soprattutto per alcuni pazienti, sia così difficile sviluppare e affidarsi a credenze nuove e più funzionali; perché, soprattutto nei momenti che in virtù di queste credenze stesse sono per loro più angoscianti, alcuni pazienti, nonostante decine e centinaia di test superati e disconferme delle loro credenze patogene e nonostante abbiano capito tutto ciò che si poteva capire su di esse, facciano così fatica a “resistere all’angoscia” e non fare sempre le stesse cose.
La risposta a questa domanda secondo me può essere articolata a vari livelli:
- di fronte a un pericolo potenziale, mettersi al sicuro è più importante che stare meglio (better safe than sorry) – solo che a volte il pericolo è temuto più che effettivo, ma il bias di conferma fa vivere la situazione di pericolo potenziale come pericolo reale, e le credenze patogene nascono proprio per scopi prudenziali, cioè per difendersi dalla possibilità di incorrere nuovamente in traumi già vissuti;
- alcuni pazienti “sterilizzano” il lavoro di disconferma delle loro credenze patogene per mezzo di processi rimuginativi per mezzo dei quali queste credenze vengono alimentate di continuo – dieci persone mi hanno detto che sono in gamba, ma io continuo a ripetermi che faccio schifo tutto il giorno. E, come dimostrato da alcune ricerche, il rimuginio stesso è una forma di autopunizione mediata dalla distorsione dei normali processi di elaborazione delle esperienze passate (Leonardi et al., 2020).
- alcuni pazienti prendono le emozioni che provano in funzione delle loro credenze patogene come prova della correttezza di queste credenze – per la serie, se ho paura è perché c’è un pericolo reale, non perché io credo ci sia un pericolo;
- le credenze patogene hanno una dimensione morale, ragion per cui non prestare loro fede è una cosa vissuta come un peccato morale – se la mia credenza patogena è falsa, allora vuol dire che mamma e papà sbagliavano o che faccio loro del male, cosa intollerabile per un bambino.
- Alcuni pazienti presentano credenze patogene contraddittorie per le quali è praticamente inevitabile che superare alcuni loro test implichi fallirne altri; altri testano le loro credenze in modi che ne rendono umanamente impossibile il superamento, dentro e fuori della stanza di terapia. Solo un dio potrebbe salvarli, o un santo.
- Alcuni pazienti scelgono altri significativi e mettono alla prova le loro credenze patogene in modi che, al di fuori della terapia, la loro ritraumatizzazione è pressocché inevitabile, ragion per cui le loro credenze patogene, sia pure disconfermate in terapia, vengono rafforzate nella loro vita reale.
- Le credenze patogene hanno, per l’adulto, la stessa autorità che i genitori avevano per un bambino. O, detto in modo più psicoanalitico, la fede nelle proprie credenze patogene è, per alcuni pazienti, un elemento identitario, è il rapporto con le loro radici. Senza di esse non sentono di sapere né chi sono né cosa fare; si sentono persi, privi di una bussola e sentono di non avere la forza o le capacità per costruirsi una bussola nuova.
L’ultimo punto, a mio parere, apre al tema, assolutamente fondamentale, del rapporto paziente terapeuta: per aiutare davvero i pazienti più disturbati a liberarsi delle loro credenze patogene è necessario che arrivino a vivere il terapeuta come una figura che ha una rilevanza emotiva e un’autorità morale analoga a quella del genitore traumatizzante, e nel contesto di una relazione così intensa, che inevitabilmente ha delle risonanze emotive molto forti anche nel clinico, quest’ultimo deve riuscire a essere sufficientemente diverso dal genitore traumatizzante del paziente, nonostante molti dei test del paziente lo spingano a reagire proprio come quel genitore. Tutto ciò ha implicazioni evidenti relative al superamento dei test, all’adozione di un atteggiamento terapeutico corretto, alla gestione del transfert-controtransfert e alla necessità, ma anche all’estrema difficoltà, di costruire con il paziente un rapporto assolutamente reale e intimo, e al tempo stesso assolutamente tagliato sui bisogni del paziente.
Per alcuni pazienti questo rapporto deve andare avanti molto a lungo, o anche per sempre, al fine di evitare crolli, ricoveri o altre evenienze tragiche; per altri è necessario sì a lungo, ma termina con il paziente che, nei momenti difficili, dialoga con il clinico nella sua mente ed è supportato da questa relazione interna, e da qualche contatto nella realtà, che solo con il tempo sfuma un po’; altri pazienti ancora necessitano di terapie meno lunghe, e del terapeuta conservano un bel ricordo, ma non molto di più. Mentre alle terapie più o meno fallite andrebbe dedicato uno spazio diverso da questo.
Non credo di sbagliare se penso che Freud si riferisse a questo tipo di problemi quando diceva che tra i compiti impossibili, oltre all’educare e al governare, ci fosse anche quello del curare, e quando sottolineava, a proposito della centralità della gestione del transfert, che per quanto il transfert (e il controtransfert) fossero il maggiore ostacolo al procedere della terapia, comunque non è possibile sconfiggere un nemico in absentia o in effige.
Disconfermare le credenze patogene significa fornire al paziente l’esperienza emotiva che cerca così che possa riuscire a sviluppare credenze più flessibili e funzionali.
Sull’ubiquità del piano
Come tutti sanno, il concetto di piano è uno dei nuclei fondamentali della CMT, ma nel corso del tempo ho avuto l’impressione che spesso esso venga utilizzato in modo troppo limitato. Ogni terapeuta CMT, a inizio terapia, formula il piano con cui il suo paziente si approccia al trattamento, ma il concetto di piano è di fatto ubiquitario, e riguarda tutte le attività umane, e animali.
Come sottolineato da Miller, Galanter e Pribram (1960) prima, e da Tomasello (2022) più di recente, infatti, ogni attività è strutturata in funzione di obiettivi (stato desiderato) da raggiungere, di una valutazione dello stato attuale del soggetto, dell’elaborazione di strategie utili a passare dallo stato attuale a quello desiderato, della capacità di valutare mentalmente e/o concretamente quanto le strategie elaborate permettano il raggiungimento degli obiettivi che si vuole perseguire, della capacità, mentale e concreta, di modificare queste strategie in funzione della loro efficacia nell’ambiente in cui ci si trova a operare (la famosa unità TOTE).
L’agire umano mette però in evidenza alcune complicazioni di questo quadro, in particolare il fatto che la scelta degli obiettivi, la loro formulazione, la valutazione delle strategie da impiegare e dell’esito che esse implicano è profondamente influenzata dal sistema di credenze che la persona ha sviluppato nel corso della sua vita, soprattutto dalle credenze patogene e delle esperienze avverse e traumatiche alla base di queste credenze. Detto in altro modo, la motivazione a padroneggiare eventi avversi e traumatici influenza tutto il comportamento di un individuo, e questo ha implicazioni profonde.
Un primo ambito in cui è possibile vedere chiaramente la centralità del concetto di piano è, a mio parere, l’inizio di una relazione sentimentale. Se analizziamo in modo puntuale ciò che fanno due persone che iniziano a conoscersi e a pensare che tra loro può nascere un amore, infatti, ci rendiamo conto che quello che accade può essere facilmente ricondotto ai costrutti di coaching e testing: le persone, in modo sia esplicito sia implicito, cercano di far capire all’altro ciò di cui hanno bisogno, cosa temono, cosa è andato e cosa non è andato per il verso giusto nelle loro precedenti relazioni importanti , e sperano che l’altro possa fornire loro le esperienze emotive di cui hanno bisogno, e possa aiutarle a padroneggiare e superare i loro traumi antichi. E non è raro costatare, nel corso di una terapia, che una buona relazione d’amore è stata una fonte importantissima di cambiamento per le persone. D’altra parte, è ben noto a tutti che anche le psicoterapie sono, dopo tutto, cure attraverso l’amore.
Ma mi vado sempre più convincendo che qualsiasi attività della nostra vita quotidiana, anche quelle più semplici, possa essere letta per mezzo del concetto di piano. Se una persona fa colazione, o come la fa. Se sceglie di lavarsi la sera, prima di andare a letto, o al mattino. Se ama o no uscire, se preferisce stare solo o ha bisogno di compagnia; se per affrontare i momenti difficili fa leva sugli altri o su di sé. Davvero tutto, se letto alla luce del costrutto di piano inteso in senso CMT (obiettivi, credenze patogene, traumi e test), assume un senso più pieno.
Faccio un solo esempio, molto piccolo, che mi ha colpito. Pochi mesi fa mio figlio ha deciso di voler fare crescere una pianta di basilico e un girasole, e dato che ha soli 5 anni, per quanto tenga a queste piante, la loro cura è ovviamente delegata a me. E per quanto io non abbia affatto il pollice verde, mi sono accorto che far sì che queste piante sopravvivano e crescano è una cosa che per me è diventata importante e fonte di soddisfazione, e mi sono allora chiesto il perché. Chiaramente, questo ha a che fare con il mio rapporto con mio figlio molto più che con le piante, con il mio desiderio di vederlo felice e di farlo sentire accudito, e con il piacere che provo quando mi prendo cura delle cose e vedo che le cose vanno bene, sono al sicuro, crescono.
Non mi è molto difficile ricondurre tutto ciò da una parte a una dimensione di responsabilità onnipotente, che per me ha a che fare con il bisogno di allontanare la sensazione di “cattiveria” che provo quando mi accorgo di trascurare qualcosa o qualcuno, una sensazione di cui conosco bene le origini traumatiche – curare il basilico e il girasole è una forma di compiacenza a questa credenza; dall’altra ha a che fare con il profondo dolore che crea in me la trascuratezza, l’idea che ci si dimentichi di qualcuno e che qualcuno possa pensare che è dimenticato dall’altro perché non conta nulla – curare il basilico e il girasole è una forma di contro-identificazione relativa a un tema da odio di sé; anche di questo tema credo di conoscere a sufficienza le origini. Ma curare il basilico e i girasoli e cercare di rendere felice mio figlio non sono problemi e non mi ostacolano nel perseguimento di altri obiettivi sani, ragion per cui sono felice di continuare a farlo.
Ecco, io credo che l’idea di piano possa aiutarci a comprendere molto meglio anche le piccole cose della vita quotidiana, cosa che ci permette anche di capire perché è tutto sommato irrilevante di cosa un paziente parli nel corso della terapia e cosa faccia in seduta: tutto ciò che sceglie di portare in terapia, se è libero di portare ciò che vuole, ci permetterà di vedere gli elementi del suo piano.
Bibliografia
Gazzillo, F., Mannocchi, C., Curtis, J., Biuso, G. S., De Luca, E., Fimiani, R., … Silberschatz, G. (2024). Passing patients’ tests and following patients’ coaching communications in psychotherapy: an empirical study. Counselling Psychology Quarterly, 1–27. https://doi.org/10.1080/09515070.2024.2354283
Miller, G.A., Galanter, E., Probram, K.H. (1960), Piani e struttura del comportamento. Tr. it. Franco Angeli, Roma 2000 (ottava edizione).
Pfeffer, A.Z. (1959), “A procedure for evaluating the results of psychoanalysis: a preliminary report”. In Journal of the American Psychoanalytic Association, 7, pp. 418-444.
Pfeffer, A.Z. (1961), “Follow-up study of a satisfactory analysis”. In Journal of the American Psychoanalytic Association, 9, pp. 698-718.
Tomasello, M. (2022), Dalle lucertole all’uomo. Tr.it. Raffaello Cortina, Milano 2023.
scarica il PDF : Due Idee di Francesco Gazzillo (2025)