“Dottore, chiami un dottore!” Alcune riflessioni sul lavoro terapeutico con pazienti psicologi

“Dottore, chiami un dottore!”
Alcune riflessioni sul lavoro terapeutico con pazienti psicologi
Laura Rosi

Quando ero una studentessa ricordo che per me non era facile mettere effettivamente a fuoco il lavoro dello psicologo, meno che mai quello dello psicoterapeuta.
Certo, avevo delle immagini provenienti da film, libri e narrazioni di altri, ma nel concreto non riuscivo a definirne davvero i contorni. Ci riuscii un giorno d’autunno, nei pressi del Gran Sasso, senza intenzione o preavviso.
Stavo facendo un’escursione con alcuni amici, con tanto di guida e di zaino in spalla, e camminando mi sono distratta a guardare qualche pianta e ho perso il sentiero, perdendo di vista tutto il gruppo. Quando me ne sono accorta il mio cuore si è gelato: mi ero persa nel bosco, il telefono non prendeva e sicuramente sarei rimasta lì, da sola, con i peggiori animali mitologici che sarebbero emersi al calar del sole. Fui inghiottita da una bolla d’ansia immane, con dispnea, giramenti di testa e pensieri in merito a quanto avrebbero sofferto i miei cari una volta saputa la mia tragica fine.
Insomma, l’avevo presa bene.
A un certo punto, nel bel mezzo delle mie elucubrazioni catastrofiche, tentando di ritrovare la strada, vedo sbucare un signore dall’età indefinibile, dalla nazionalità indefinibile, probabilmente tedesco a giudicare dall’abbigliamento “patognomonico”, ma con il mio medesimo sguardo interrogativo e una mappa aperta in mano.
Il solo vederlo mi rassicurò, nonostante anche lui mi sembrasse in difficoltà, ma non disperato come in realtà ero io: almeno non avrei dovuto affrontare quell’orrore da sola. Ricordo che mi guardò, e mi sorrise, facendomi segno di avvicinarmi.
Io ovviamente non me lo sono fatto ripetere due volte, e arrivata davanti a lui con la tachicardia e probabilmente il panico dipinto in faccia continuavo a fissarlo, e mi chiedevo: ma che si sorride questo? Non si rende conto in che situazione tremenda siamo?
Al che lui mi mette una mano sulla spalla e mi fa, con un accento curioso: “Ciao, anche tu sei persa? Non ti preoccupare, a volte sentiero difficile, ma poi ritrovare. Io già perso tante volte, ma sentiero si ritrova sempre, importante è stare calmi. Ora cercare insieme. Sentiero non scappa.”
In un istante la mia ansia si dissolse, insieme alle immagini di lupi, elicotteri di soccorso e al mio nome sui necrologi, grazie a quel signore presumibilmente tedesco e alle sue parole lente e chiare.
Ecco, a distanza di quasi vent’anni posso dire che quel momento ha rappresentato un’epifania nella mia mente. Se avessi dovuto spiegare cosa fa un terapeuta molto probabilmente avrei pensato al signore tedesco, con lo sguardo interrogativo, la mappa davanti, tanti sentieri perduti e altrettanti ritrovati, e la fiducia nel processo.
Alla fine ritrovammo la strada, fummo redarguiti dalla guida, e io imparai che i trekking sono bellissimi ma che ogni avventura comporta il rischio di perdere la strada, e la fiducia di ritrovarla, ma che non è qualcosa che è sempre possibile fare da soli. Sentiero non scappa, ed è meglio cercare insieme.
Ci sono altre immagini che per me rappresentano molto bene il lavoro della psicoterapia, ma questa è la mia più privata ed è quella che molto spesso mi torna alla mente quando mi trovo ad affrontare dei momenti difficili in alcune psicoterapie: il sentiero si ritrova, il sentiero si ricostruisce, ed è meglio se lo cerchiamo insieme, perché il fatto che ora ti senti perso non significa che tu lo sia davvero.
Un’altra immagine a mio avviso molto efficace è quella che paragona la psicoterapia all’arte sartoriale: un processo attento e meticoloso che si adatta alle esigenze individuali di ogni paziente. Il terapeuta, come un abile sarto, costruisce un intervento su misura, tessendo i fili della storia, del dolore, delle speranze e delle fragilità del suo paziente insieme al paziente stesso.
Tuttavia, la relazione terapeutica può assumere un’altra dimensione quando il paziente è un collega, un professionista della salute mentale come noi.
Cosa comporta cucire un abito a casa di un sarto?
Questo breve scritto si propone di analizzare alcune delle sfide e delle opportunità uniche che si presentano nel lavoro terapeutico con pazienti psicologi. Verranno esplorate alcune dinamiche relazionali che emergono in questo contesto, con particolare attenzione alla Control-Mastery Theory, un meta-modello che offre una prospettiva preziosa.
L’obiettivo è quello di fornire una riflessione critica sulle sfide che il terapeuta deve affrontare quando il paziente è un collega, con particolare attenzione all’etica e alle dinamiche relazionali che si presentano in questi casi. Attraverso l’analisi di queste sfide, si cercherà di comprendere come il terapeuta possa muoversi in questo terreno delicato con sensibilità e professionalità, riconoscendo i propri limiti e utilizzando le sue competenze in modo costruttivo e responsabile.
Inserirò alcuni piccoli esempi raccolti nella mia pratica clinica, una breve rassegna di momenti da cui è nato anche il desiderio di scrivere queste righe.
Numerosi autori nel corso del tempo hanno trattato la relazione tra terapeuta e paziente, con un’attenzione particolare al transfert e alle dinamiche relazionali. Sigmund Freud (1912) ha posto le basi di questo discorso, rendendo evidente come le esperienze del passato dei pazienti influenzino il modo in cui fanno esperienza del terapeuta e della relazione con lui. Negli anni ’50 e ’60, autori come Carl Rogers (1961) hanno sottolineato l’importanza dell’empatia e dell’autenticità nella relazione terapeutica, contribuendo così ad una svolta nella pratica psicologica.
La Control-Mastery Theory, sviluppata da Joseph Weiss (1977), offre una cornice unica per comprendere la relazione terapeutica ed utilizzarla come imprescindibile strumento di lavoro, che diventa così una dimensione in cui i pazienti possono sentirsi al sicuro e quindi mettere in dubbio le proprie credenze patogene. Le credenze patogene sono convinzioni profonde e disfunzionali che i pazienti sviluppano nel corso della loro vita a causa di esperienze traumatiche e che influenzano fortemente il comportamento e le relazioni.
La Control-Mastery Theory sostiene, infatti, che i pazienti sviluppano un piano inconscio, una sorta di “mappa mentale” che guida il loro comportamento e le loro relazioni in modo profondo e tendenzialmente inconscio. Il paziente, per verificare la validità delle proprie credenze, mette alla prova il terapeuta attraverso una serie di test, cercando di capire se il terapeuta confermerà o smentirà le sue convinzioni. Questo processo di “testing” non è consapevole da parte del paziente, ma rappresenta un modo di esplorare le sue paure e i suoi dubbi in un contesto sicuro, come la stanza di terapia. Il terapeuta, consapevole di questi test, può utilizzarli come un’opportunità per aiutare il paziente a mettere in discussione le sue credenze patogene e a costruire nuove strategie per affrontare la propria vita.
Dal punto di vista di chi scrive, la base per un buon lavoro terapeutico risiede nel rispetto dell’individualità del paziente, nella fiducia e nella sintonizzazione, aspetti su cui costruire l’intero processo di lavoro.
Ogni terapeuta è stato un paziente (o almeno così dovrebbe essere) e allo stesso tempo è stato un giovane studente prima e uno specializzando poi.
Ogni terapeuta custodisce la propria storia, ed è spesso inevitabile che tale eco risuoni nella stanza di terapia, in particolare quando il paziente è un collega, giovane o meno giovane.
Certamente ogni diade paziente-terapeuta è unica e irripetibile, e questo vale anche per la relazione con i nostri pazienti che sono colleghi, rispetto ai quali ritengo che sia importante una riflessione particolare. Infatti, in questo caso, non solo è fondamentale prestare attenzione alle dinamiche del paziente, ma anche alle dinamiche del terapeuta, che potrebbe inciampare con maggiore facilità in alcuni pendii relazionali.
In primo luogo, chi scrive ritiene centrale ricordare che il terapeuta dovrebbe saper mantenere la stessa attenzione e ascolto nei confronti di questi pazienti, non lasciandosi ingannare dalla tematica di “colleganza” che potrebbe portare a sopravvalutare alcune risorse e a minimizzare alcune criticità del funzionamento, dando per scontato che la competenza e il linguaggio comune possano essere esclusivamente fattori protettivi.
Inoltre, è importante valorizzare le competenze del paziente, supportare la nascita di una sana identità professionale, ma non colludere con un rispecchiamento potenzialmente ostacolante nei confronti di un nucleo autentico del paziente.
Insomma, nonostante sia un’area relazionale enormemente ricca e preziosa, ritengo che sia particolarmente importante che il terapeuta riesca a mantenere un enorme equilibrio, rimanendo connesso ed autentico, ma proteggendo il paziente e aiutandolo a realizzare il suo piano inconscio (Gazzillo, 2018).
Ricordo molto bene quando per la prima volta incontrai una paziente che studiava psicologia. All’epoca ero una specializzanda, e il contesto in cui lavoravamo insieme era proprio quello di tirocinio, quindi un setting molto diverso da quello dello studio privato. Ero giovane e piena di insicurezze ed entusiasmo, ossimoro di stati interni che spesso caratterizza i primi incontri con i pazienti. Ricordo perfettamente quanto mi sentivo incapace rispetto ai terapeuti con decenni di esperienza che svolgevano la funzione di tutor, e quanto osservavo il loro modo di stare in relazione con i pazienti, cercando di trovare un appiglio per mitigare i miei timori.
Sono effettivamente troppo giovane? Questa ragazza penserà che non sono in grado di aiutarla? Del resto, chi sono io per poter fare qualcosa di utile, ci troviamo praticamente allo stesso punto, al massimo avrò 4 anni più di lei…cosa potranno mai significare?
Insomma, ero sostanzialmente in un mulinello di domande senza risposta che mi faceva completamente perdere il punto di vista più sano da cui avrei dovuto guardare la situazione: eravamo due persone, in due posizioni differenti ma che si trovavano davanti alla sfida di costruire una relazione, insieme. E poi, ahimè, tendevo a dare troppa importanza alle mie inevitabili mancanze, dando per scontato che la paziente avrebbe fatto la stessa cosa.
E invece questo non accadde, anzi: la mia grande attenzione, il gran numero di domande che le ponevo, il mio non dare nulla per scontato (mosso da una profonda paura di sbagliare) furono aspetti molto funzionali al nostro lavoro, che un giorno, molto tempo dopo, mi restituì: “Quello che mi ha sempre aiutato nel nostro lavoro è che lei non si è mai comportata come una con la verità in tasca, ho sentito che davvero a lei interessava il mio punto, la mia ottica, fuori da tutte le teorie.”
Grazie a quella terapia mi sono resa conto di quanto anche le nostre fragilità possono essere trasformate in qualcosa di molto arricchente, e in quel caso la mia onesta paura di sbagliare, data dall’inesperienza e dallo zelo, è arrivata come genuino interesse e profonda vicinanza, consegnando alla paziente tutto lo spazio di cui aveva bisogno, e che io temevo di saturare.
In quella stanza spoglia di un dipartimento di salute mentale, finalmente, mi sono accorta di quanto molte delle teorie potessero lasciare il posto a qualcosa di più profondo e se vogliamo personale: l’incontro delle dimensioni interiori, che non è replicabile ma allo stesso tempo va continuamente osservato.
Volendo raccogliere alcuni elementi emersi negli anni di lavoro, penso possano essere ipotizzati dei vantaggi in questo specifico tipo di relazione terapeutica:
Consapevolezza: i pazienti psicologi possono portare in seduta una maggiore consapevolezza delle dinamiche psicologiche, facilitando una terapia più profonda e riflessiva.
Sicurezza nella comunicazione: possedere conoscenze di natura psicologica può favorire una comunicazione aperta e onesta, con un linguaggio chiaro.
Esperienze condivise: avendo vissuto e attraversato simili percorsi, in particolare formativi ed esperienziali, paziente e terapeuta possono muoversi agevolmente in un terreno comune, ed il terapeuta può sintonizzarsi con molta facilità su alcune preoccupazioni o tematiche del paziente
Contemporaneamente, vanno però tenuti presenti eventuali rischi:
Risposta eccessivamente critica: i pazienti psicologi possono adottare una postura critico-analitica nei confronti del terapeuta, il che potrebbe limitare il processo terapeutico (Gabbard, 2000).
Rischio di intellettualizzazione: la tendenza a razionalizzare eccessivamente le emozioni può ostacolare il lavoro di elaborazione emotiva (Kohut, 1971)
Confusione di ruoli: il paziente può trovare difficile separare il proprio ruolo di terapeuta da quello di paziente, perdendo di vista dei confini sani del mondo interno e degli aspetti identitari (Mitchell & Black, 1995).
Aspettative professionali: il paziente potrebbe sentirsi sotto pressione temendo di doversi attenere a standard professionali, immaginando il terapeuta come un’istanza giudicante
Affrontare queste dinamiche richiede un’attenzione consapevole da parte del terapeuta, che deve essere in grado di navigare tra i vari ruoli e supportare il paziente nell’esplorare le proprie esperienze.
Una particolare attenzione deve essere ovviamente dedicata alle strategie di testing messe in atto da parte del paziente, ed in questo caso vanno tenute a mente sia le sue credenze patogene – ovviamente centrali- come anche le competenze e le conoscenze che possiede.
Particolare rilievo, a mio avviso, va concesso ai test osservativi, per cui il terapeuta deve essere fortemente consapevole delle proprie caratteristiche, del proprio linguaggio sia verbale che non verbale, e riconoscere l’importanza di tutti gli elementi che compongono il setting. I test osservativi rappresentano uno strumento importante attraverso cui il paziente può osservare le strategie del terapeuta nel tentativo di controllare il proprio ambiente. Un paziente psicologo può, ad esempio, osservare come il terapeuta reagisce a determinate affermazioni o comportamenti, dando vita a un feedback importante per la terapia, ma anche trovare un modo di immaginarsi terapeuta seppur nella posizione del paziente (Gazzillo, 2018).
Una mia paziente, all’epoca studentessa di psicologia, con una storia di vita costellata di esperienze da cui aveva strutturato un forte odio di sé declinato all’interno di un sistema di separazione/slealtà, un giorno mi guardò con aria particolarmente interrogativa, sulla soglia del mio studio. Continuò a fissarmi con un’espressione critica e diversa dal solito, al punto da farmi pensare di avere qualcosa di francamente inadeguato, una macchia di sugo magari, o un buco sulla maglia, ma riuscii a resistere alla tentazione di controllare, e aspettai.
P: dottoressa, certo che oggi non è proprio vestita da psicologa. Tutto sommato non è che ci si vesta mai in effetti.
Rimasi momentaneamente interdetta, poi non riuscii a trattenere una risata.
T: in che senso? Come si vestono le psicologhe?
P: mah, non lo so. Magari con un tailleur, un completo, i tacchi. Non lo so, a vederla così non direi che fa la terapeuta.
T: e che cosa direbbe? Sono curiosa! (ero effettivamente molto tranquilla, quasi divertita da quello scambio, pur riconoscendone la valenza di test, e questo mio aspetto autentico mi consentì di superarlo)
P: non lo so, forse direi che fa un lavoro qualsiasi, non lo so, il fatto che ha sempre le scarpe da ginnastica, i jeans, cioè, sembra che non gliene frega niente di quello che pensa la gente.
T: e che ne pensa di questo?
P: (pausa) penso che fa bene, ma che io non ci riuscirei mai. Io mi immagino che se riuscirò a diventare una terapeuta mi vestirò tutta elegante, perché magari così verrei presa più sul serio, non lo so.
T: dice che lei mi prenderebbe più sul serio se la prossima volta venissi in tailleur?
P: oddio no! Penso che mi farebbe strano, non sarebbe da lei. Cioè, secondo me starebbe bene pure col tailleur, ma il punto è che forse mi farebbe strano, perché il fatto che lei si veste come le pare a me in realtà piace un sacco, e mi chiedo se un giorno riuscirò a farlo anche io.
T: io sono certa che ci riuscirà, e stiamo qua anche per questo, perché lei si senta libera di essere com’è e non come pensa che gli altri vogliano che lei sia. Che siano dei tacchi o delle scarpe da ginnastica, è lei che decide dove andare, e andrà benissimo qualsiasi cosa scelga.
Da quel momento abbiamo lavorato molto sulle sue aspettative rispetto alla possibilità di riuscire ad essere in futuro una terapeuta valida, alla paura di essere troppo compromessa per potercela fare, e tutto partì da quel momento, da quel giorno in cui ero vestita effettivamente molto casual, un po’ troppo perfino per i miei standard, ma quelle scarpe da ginnastica e quei jeans con una felpa ci consentirono di esplorare un mondo fatto di paure che, con gli anni, si sono rivelate infondate.
Nella stanza di terapia ci sono quindi due psicologi ma solo uno dei due esercita la propria professione in quel momento. Ma quali possono essere alcune dimensioni psichiche comuni ai due attori della relazione?
Gli operatori della salute mentale, in particolare gli psicologi, sono particolarmente vulnerabili a specifici meccanismi difensivi e sensi di colpa interpersonali, che possono influenzare la loro capacità di entrare in empatia con i pazienti e di lavorare in modo efficace.
In questa sede verranno elencati tali aspetti solo in relazione al paziente e al proprio ruolo di terapeuta.
Tra i meccanismi difensivi più comuni troviamo:
Intellettualizzazione: la tendenza a razionalizzare eccessivamente le emozioni, per evitare di entrare in contatto con il proprio vissuto emotivo e di affrontare la vulnerabilità, può portare a una distanza emotiva dal paziente e a una difficoltà nel cogliere le sue sfide e i suoi bisogni reali (Gabbard, 2000; Schore, 2003).
Proiezione: attribuire i propri sentimenti negativi ad altri, per proteggersi dall’ansia e dalla vulnerabilità. Questo può portare a una distorsione della relazione terapeutica, con il rischio di proiettare sul paziente le proprie paure e ansie, ostacolando la comprensione reale del suo vissuto (Mitchell & Black, 1995; Safranski, 1997).
Inoltre, gli operatori di salute mentale possono essere particolarmente vulnerabili a specifici aspetti relativi ai sensi di colpa interpersonali, come:
Senso di colpa da separazione: la paura di abbandonare il paziente o di non essere in grado di aiutarlo in modo efficace, a causa della percezione di una responsabilità eccessiva nei confronti del suo benessere (Gazzillo, 2018; Safranski, 1997).
Senso di colpa da odio di sé: la tendenza a criticarsi aspramente per i propri errori o mancanze, portando a un’immagine negativa di sé e a un aumento dell’ansia (Gabbard, 2000; Schore, 2003).
Senso di colpa da responsabilità onnipotente: il sentirsi eccessivamente responsabili del benessere del paziente, senza riconoscere che il paziente ha una propria autonomia e un proprio percorso di crescita, portando a un senso di frustrazione e di incapacità (Gazzillo, 2018; Safranski, 1997).
Senso di colpa da burdening: il sentirsi in colpa per il peso che il paziente rappresenta per loro, per il dolore e le difficoltà che porta a condividere, portando a un distacco emotivo e a una difficoltà nell’entrare in empatia (Gazzillo, 2018; Safranski, 1997).
Senso di colpa del sopravvissuto: il terapeuta potrebbe sentirsi in colpa nel constatare di stare meglio del proprio paziente, di avere raggiunto degli obiettivi che il paziente invece fatica a raggiungere o addirittura non potrà raggiungere viste le condizioni di partenza, e questo potrebbe ostacolare la relazione terapeutica e l’alleanza (Gazzillo, 2018).
Questi sensi di colpa possono essere molto intensi e interferire con il processo terapeutico, rendendo difficile la creazione di un clima di fiducia e di rispetto, e ostacolando il processo di guarigione del paziente.
Ricordo con grande chiarezza uno dei miei primi pazienti che si era appena abilitato alla professione di psicologo, un ragazzo molto intelligente cresciuto all’interno di un contesto in cui la possibilità di esprimersi in modo autentico era considerata segno di debolezza, ed ogni comunicazione doveva essere tesa al raggiungimento di un obiettivo concreto e misurabile, senza perdere tempo con le sciocchezze. La sua scelta di iscriversi a psicologia era stata profondamente contestata, per non parlare della volontà di intraprendere un percorso di psicoterapia personale. Molto spesso questo ragazzo portava nel nostro rapporto una dimensione da passivo in attivo per compiacenza rispetto alla dimensione svalutante, ed i nostri scambi avevano spesso un ritmo che posso esemplificare come segue:
P: (agitato) Mi sembra che le nostre sedute siano troppo vaghe. Francamente non credo che lei mi stia aiutando, anzi, non mi sembra proprio. Non ricevo i compiti specifici o le tecniche che mi aiuterebbero davvero.
T: Capisco, ma credo che qualcosa mi sfugga. Posso chiederle cosa si aspetta di ottenere da queste tecniche?
P: Beh, sapendo esattamente cosa fare, potrei ottenere risultati tangibili nel controllare alcune situazioni. Senza è come navigare al buio. In cosa il mio parlare con lei è diverso da una chiacchiera qualsiasi?
T: Mh. Beh, in effetti stare al buio non è piacevole, però mi domando, lei davvero ritiene che queste tecniche potrebbero far luce su qualcosa che invece fino ad ora è rimasto nell’ombra?
P: (riflette) Forse. Non lo so. Secondo me un approccio più concreto, più teso all’obiettivo sarebbe meglio. Ma non lo so. Io non sono abituato a muovermi così, apparentemente senza meta e senza senso.
T: Lo comprendo bene, specialmente rispetto ad alcune dinamiche tipiche della sua famiglia di cui mi ha parlato molte volte. Mi chiedo se magari queste tecniche di cui lei parla in realtà non abbiano un po’ il ruolo di proteggerla, di farla sentire come sotto una coperta che è abituato a portare da sempre, senza quasi chiedersi se abbia freddo o meno.
P: Non saprei. Per me è molto difficile parlare di me, di come mi sento, di cose normali se vogliamo. Ho paura che se parliamo e basta, senza delle cose più strutturate, io non starò mai meglio, anche se poi alla fine di solito io mi sento meglio dopo la seduta. Però se me lo chiedesse qualcuno non saprei dire perché, non saprei dire che cosa succede che mi fa stare meglio. Forse che io qui mi sento che posso dire tutto, ma allo stesso tempo è come se fosse strano per me. Nella mia famiglia non si parla mai di emozioni, di dubbi. Mi sembra sempre di dover dimostrare qualcosa, come se parlare di sé liberamente fosse una perdita di tempo.
T: È naturale sentirsi così quando si è abituati a certe dinamiche, ognuno di noi sviluppa alcune previsioni e credenze in base all’ambiente in cui è cresciuto, e non è semplice accogliere che possa esserci qualcosa di diverso in serbo per noi. Quando veniamo messi costantemente sotto pressione la sua assenza può farci sentire persi anziché liberi.
P: (lunga pausa) Forse esercito la stessa pressione su di lei, come mia madre fa con me da sempre. Ma non mi piace.
T: Lo comprendo, non si preoccupi. Possiamo esplorare tutto questo insieme, un passetto alla volta.
P: (sorride, un po’ sollevato) Sì, credo che potremmo provare. Fino alla prossima volta in cui mi verrà l’ansia che non sto facendo abbastanza e mi lamenterò che lei non mi aiuta!
T: E che problema c’è? Facciamo tutto quello che serve, alla fine è la tecnica che funziona meglio.
Come si evince, l’attenzione del terapeuta deve essere doppiamente focalizzata e vigile, perché l’incastro di questi aspetti condivisi può rappresentare sia una risorsa, se lavorato, che un ostacolo, se ignorato.
Fin dall’inizio del mio lavoro ho iniziato a riflettere in modo sempre più profondo sul concetto di “atteggiamento” come strumento terapeutico, trovando che possa essere una dimensione davvero ricca di aspetti da considerare.
Le riflessioni in merito all’atteggiamento non possono prescindere ovviamente da quello specifico terapeuta, con quello specifico paziente, in quello specifico momento della terapia, eppure ci sono a mio avviso delle situazioni in cui l’atteggiamento diventa cruciale, come ad esempio con pazienti particolarmente traumatizzati e con un livello di funzionamento molto compromesso.
Le mie esperienze all’interno di servizi che si occupavano di dipendenze patologiche, in particolare tossicodipendenza, mi hanno insegnato quanto a volte l’atteggiamento sia l’unico strumento di cui un terapeuta disponga, e ho imparato alcune delle lezioni più importanti della mia carriera.
Ciò detto, quando si lavora con un paziente che è anche psicologo o psicoterapeuta, l’atteggiamento del terapeuta gioca un ruolo cruciale nel facilitare un processo terapeutico efficace e produttivo.
Ecco alcuni aspetti a mio avviso da considerare:
Il terapeuta dovrebbe adottare un approccio autentico e umile. Riconoscere apertamente il proprio ruolo e le proprie limitazioni è fondamentale: il terapeuta non deve mostrarsi come un’autorità assoluta ma piuttosto come un collaboratore nel processo terapeutico (Gabbard, 2000). Questo approccio può aiutare a ridurre sentimenti di competizione e difesa, permettendo al paziente di sentirsi più a suo agio nell’esprimere dubbi o vulnerabilità.
Essere empatici e comprendere le complessità uniche che derivano dal fatto che il paziente sia anche un collega del settore è essenziale. Questo significa non solo ascoltare le esperienze del paziente ma anche riconoscere le loro competenze e conoscenze professionali, creando un clima di rispetto e supporto reciproco (Rogers, 1961)
La strutturazione del setting terapeutico deve essere chiara e ben definita. È fondamentale stabilire limiti e aspettative, definire gli obiettivi e proteggere il paziente affinché possa sentirsi al sicuro e lavorare sul raggiungimento dei suoi obiettivi seguendo il suo piano. Essendo colleghi è possibile che in alcune occasioni (congressi, situazioni gruppali, seminari, corsi di perfezionamento) il paziente ed il terapeuta si incontrino. Se questo è prevedibile è fondamentale parlarne in seduta, gestendo la situazione in modo pro-plan, ricordando che il terapeuta è garante della sicurezza del setting terapeutico. Personalmente non ritengo sia necessariamente problematico incontrare i propri pazienti all’interno di un contesto altro, ma questo deve essere discusso, accordato, lavorato molto a fondo, altrimenti il rischio di confusione aumenta, insieme all’illusione che condividere la formazione coincida con la condivisione di altre dimensioni. In ogni modo, ritengo che la sicurezza del setting sia di particolare importanza per i pazienti psicologi, e la sicurezza ha bisogno di alcuni limiti ben definiti e della creatività di saperci stare dentro senza mai soffocare.
A tal proposito ho riflettuto molto grazie ad un’altra mia paziente (psicologa e psicoterapeuta in formazione) che alla fine del primo colloquio mi disse una cosa che non ho più dimenticato e che ho tenuto presente come bussola nel mio lavoro: “Quello che ho davvero apprezzato di questo primo incontro è che lei non ha fatto le classiche domande da psicologa, invece mi ha fatto sentire che davvero lei era presente, che era autentica”.
Queste parole hanno molto risuonato in me, portandomi anche a riflettere su quanto questo aspetto avesse contato per me nella scelta del terapeuta quando a mia volta decisi di iniziare la mia psicoterapia personale. Essendo una studentessa di psicologia conoscevo piuttosto bene le cosiddette tecniche del colloquio ed ero in grado di percepire (anche se all’epoca probabilmente non lo sapevo) se il professionista che avevo davanti stesse seguendo in modo pedissequo un protocollo, a discapito della reale sintonizzazione. Ricordo molto bene quella sensazione provata ormai molti anni fa, e le parole della mia paziente sono state capaci di dare un nuovo senso anche ad un mio vissuto lontano, che fino a quel momento non avevo significato in modo così chiaro.
Ricordo molto bene un colloquio conoscitivo con un terapeuta che, chiedendomi lumi in merito al mio rendimento accademico, espresse in modo malcelato un concetto simile a “Beh, ma hai una media altissima, sei al passo con gli esami, sei una brava, che problemi potrai mai avere?”.
Ecco, all’epoca mi sentii talmente amareggiata da quelle parole che decisi di non tornare più da quel dottore, che non era stato in grado di comprendere che i miei ottimi risultati accademici non erano minimamente garanzia di uno stato di benessere, anzi. Ma come potevo io fidarmi di qualcuno così miope? Come poteva aiutarmi a ritrovare il sentiero se mi sembrava che non sapesse nemmeno vedere oltre il proprio naso?
In effetti il fallimento grossolano di quel test, in cui peraltro si era aggrovigliato in modo completamente autonomo, fu per me un grande beneficio, in quanto mi consentì non di incontrare e scegliere persone con la capacità di non imporre il proprio punto di vista, ma di decidere che tipo di terapeuta non sarei mai diventata.
Un altro argomento piuttosto interessante ha a che fare con la self-disclosure del terapeuta, ovvero la condivisione da parte del terapeuta di esperienze personali o professionali, che deve essere gestita con attenzione.
Mentre la self-disclosure strategica può essere utile in terapia per creare una connessione più profonda e umanizzare la figura del terapeuta, è fondamentale considerare alcuni aspetti. La self-disclosure dovrebbe avere uno scopo terapeutico chiaro e può servire a:
Stabilire un legame emotivo: condividere esperienze personali che potrebbero risuonare con il paziente può migliorare l’alleanza terapeutica e creare un senso di sintonizzazione (Schore, 2003).
Normalizzare le esperienze: la condivisione di esperienze che il paziente potrebbe considerare imbarazzanti o uniche può aiutarlo a sentirsi compreso e meno isolato (Mitchell & Black, 1995).
È fondamentale, inoltre, porre limiti all’entità e alla natura della self-disclosure e gestirla adeguatamente:
Contenuto rilevante: il terapeuta deve evitare di condividere esperienze che possano mettere il paziente nella posizione di dover prendersi cura delle emozioni del terapeuta, portando ad una pericolosa inversione di ruolo. La self-disclosure deve sempre rimanere focalizzata sul bene del paziente e sul lavoro terapeutico (Gabbard, 2000).
Tempi e Spazi Adeguati: i momenti di self-disclosure devono essere scelti con cura, evitando che diventino il focus della seduta. Anche il contenuto condiviso deve essere appropriato al contesto e al momento della terapia.
Dopo una self-disclosure, avere uno spazio per discutere la reazione del paziente è essenziale. Questo aiuta a verificare l’impressione del paziente e a mantenere il processo terapeutico centrato sul piano del paziente.
Penso che questo tema sia molto importante per porre un confine che non ponga confusione rispetto alla tematica dell’autenticità, che assolutamente non va sovrapposta ad una modalità troppo simmetrica di relazione. È importante ricordare che il nostro paziente psicologo ha tutto il diritto di vivere lo spazio di terapia come desidera, e che la nostra figura non deve assolutamente saturare quello spazio con le proprie esperienze ed i propri contenuti, visto e considerato che fuori da quello spazio a sua volta quella persona sarà “sull’altra poltrona”.
In merito a questo ho molto riflettuto su quello che probabilmente anni fa avrei definito un errore clinico, mentre oggi ho potuto riformularlo e coglierne il senso.
Una mia paziente, all’epoca specializzanda in psicoterapia, mi portava molto spesso dei vissuti particolarmente spiacevoli rispetto al proprio contesto di formazione, temendo di essere sempre lei ad esagerare, ad essere in errore, mentre io sapevo perfettamente che così non era. Dunque, senza troppo pensarci, ho scelto di rimandarle esattamente ciò che pensavo: che non era lei che stava esagerando, che era normale che si sentisse così, e che era capitato anche a me una situazione pressoché sovrapponibile anni prima, e che anche se quando siamo dentro al ciclone non pensiamo di poterne uscire, anche lei ce l’avrebbe fatta.
Era stato un intervento istintivo, sicuramente conoscevo molto bene la paziente e la bontà del nostro legame, eppure mi chiesi subito se non avessi commesso un errore. La reazione della paziente, però, mi fece subito comprendere che in quel caso la mia self-disclosure era stata molto pro-plan, poiché era passata in modo preponderante l’intenzione non di dare importanza al mio vissuto a discapito del suo, bensì di validare ciò che stava provando attraverso la possibilità di condividerlo.
Ultimo aspetto a mio avviso particolarmente rilevante è quello che ha a che fare con alcuni momenti potenzialmente difficili dal punto di vista della gestione del controtransfert.
Uno degli aspetti più delicati può essere quando il paziente inizia a svalutare, più o meno velatamente, il lavoro del terapeuta, confrontandolo con altri professionisti come docenti della scuola di specializzazione o altri terapeuti. Questo può essere particolarmente difficile per il terapeuta, che potrebbe sentirsi ferito o messo in discussione. È importante che il terapeuta non perda di vista la prospettiva del paziente e il suo particolare percorso di crescita, mantenendo chiarezza sul proprio ruolo.
Ricordo molto bene un paziente psicologo che era giunto al momento di dover scegliere la scuola di specializzazione. Era un ragazzo molto brillante a cui mi ero davvero affezionata, aveva una storia molto dolorosa alle spalle ma il nostro lavoro lo aveva molto aiutato, al punto di essere riuscito a raggiungere molti dei suoi obiettivi più importanti in breve tempo. Un giorno venne in seduta e mi disse, improvvisamente, che aveva scelto la scuola di specializzazione. Mi congratulai con lui, ma lui mi disse che questo avrebbe comportato la chiusura della nostra terapia, visto che avrebbe dovuto iniziarne una con un didatta della scuola, come conditio sine qua non. In quel momento sentii una fitta allo stomaco, un insieme di incredulità e profondo fastidio, e probabilmente non riuscii molto bene a dissimulare, quantomeno lo sbigottimento. Lui mi comunicò questa sua decisione, dicendomi che alla scuola gli avevano dato dei tempi per concludere la sua terapia, e che dovevamo attenerci a quelli. Lo guardai e solo vedere i suoi occhi addolorati mi fermò dall’imprecare. Ricordai il suo piano, la fatica attraversata per poter superare le dimensioni connesse ai sensi di colpa da brudening, responsabilità onnipotente ma soprattutto separazione/slealtà, per cui feci un bel respiro e cercai un modo per non farmi trascinare dentro quell’enorme vortice. Ce la misi tutta, facendo lo slalom fra le mie stesse emozioni, e alla fine ne venimmo fuori, almeno in parte. La terapia si concluse, effettivamente, ma fummo noi a decidere tempi e modi. Mi resi conto però che qualcosa era rimasto in me, una quota di amarezza, e per molto tempo continuai a chiedermi se non avessi commesso degli errori: alcuni aspetti di quella relazione avevano toccato delle mie quote personali, delle mie fragilità, che rimasero immobili, e sperai che non avessero troppo interferito nella relazione con il paziente. La mia era evidentemente una pia illusione, poiché qualche mese dopo il mio ormai ex paziente mi mandò una email davvero emozionante, in cui non solo mi aggiornava su come stesse andando la sua vita, ma mi spiegava anche cosa era successo realmente. Mi scrisse che gli era dispiaciuto il modo in cui mi aveva detto di voler interrompere la terapia, però che allo stesso tempo era forse una parte autopunitiva su una tematica di ribellione rispetto alla dimensione di separazione. Mi spiegò che non aveva rimpianti, perché il nostro lavoro aveva portato “un circolo virtuoso di accoglienza e cura” che si ritrovava a sperimentare finalmente da specializzando, e che davvero stava molto bene. Mi emozionai leggendo quella lettera, e gliene fui molto grata. Quella sensazione di incompiutezza e vago malessere si erano dissolte, e riconobbi che quello specifico movimento relazionale aveva mosso in me degli aspetti troppo privati che non credevo sarebbero emersi nel contesto di psicoterapia. E invece!
Del resto, il nostro lavoro ci impone una grande manutenzione di noi stessi, perché come ci distraiamo un attimo ecco qua un irrisolto pronto a fare capolino rendendo le cose ancora più ingarbugliate.
Quell’esperienza mi fu molto utile, poiché mi è rimasta come monito dell’importanza di soffermarmi sui miei aspetti relativi al controtransfert, in particolare con pazienti psicologi. In queste situazioni, infatti, specialmente quando il paziente ha dei vissuti molto simili a quelli del terapeuta, è facile che purtroppo i piani si confondano e che il terapeuta si attivi verso il paziente come avrebbe voluto che qualcuno facesse con lui/lei, confondendo la situazione e perdendo di vista il paziente. In questi casi, il terapeuta può incorrere nel grossolano errore di ipotizzare che ciò che ha funzionato nella sua storia funzionerà anche in quella del paziente, e per quanto questo pensiero possa essere mosso dalle migliori intenzioni, è pur sempre enormemente rischioso, nonché poco rispettoso dell’unicità dell’altro. Del resto, nel terapeuta si possono attivare delle parti molto simili a quelle genitoriali, per cui “per me ha funzionato, funzionerà anche per te” potrebbe diventare strumento di ritraumatizzazione scambiato per cura.
Ecco, in quel caso non mi ero spinta così in là, eppure con grande onestà (e rammarico) ho riconosciuto che una parte di responsabilità la avevo eccome: il paziente mi ricordava così tanto alcuni aspetti di me stessa che molto probabilmente sarà passato il messaggio di cui sopra, anche non verbalmente, per cui il paziente potrebbe essersi trovato a vivere la stessa difficoltà di separazione all’interno del rapporto che lo aveva aiutato a superare quella stessa dimensione in altri contesti.
Per fortuna nel corso del tempo ho imparato a perdonarmi per i miei errori, e cercare di usarli come insegnanti autorevoli ma non crudeli.
Anche gli aspetti teorici possono diventare un terreno minato, nel momento in cui il paziente mette in discussione alcuni elementi del lavoro svolto, rileggendoli attraverso il filtro di altre cornici teoriche. Qui il terapeuta deve saper bilanciare l’apertura al confronto con la ferma consapevolezza del proprio approccio e delle proprie scelte cliniche.
Su questo aspetto mi sono trovata moltissime volte nella situazione di dover affrontare discussioni in merito alla validità o meno di alcuni miei interventi, dei miei autori di riferimento, del mio stare all’interno della dimensione terapeutica in un modo piuttosto che in un altro.
Personalmente non ne ho mai sofferto molto, forse perché da paziente mi sono trovata moltissime volte nella posizione di fare innumerevoli test (prevalentemente da passivo in attivo) alla mia terapeuta su questi aspetti, e ricordo che nonostante io potessi arrivare ad un notevole livello di pedanteria, potermi confrontare con lei mi faceva sentire serena, soprattutto perché lei stessa era serena, forse anche un po’ divertita.
Nonostante questo, riconosco che con il paziente psicologo questa può essere una dimensione faticosa, specialmente quando sollecitata ripetutamente.
Ricordo una mia paziente che, per un periodo, non faceva che chiedermi se avessi letto o meno una serie di testi, manuali, saggi, tutti inerenti alla psicologia ovviamente, ma davvero lontani da mio modo di lavorare. Nonostante le sue non troppo velate critiche rispetto alla mia ignoranza io sono sempre rimasta in una modalità molto zen, visto che la dimensione da passivo in attivo per compiacenza su aspetti di odio di sé è sfiancante da tollerare ma semplice da comprendere. Dopo qualche mese di tortura bibliografica ricordo che la paziente riuscì a raggiungere un obiettivo importante per cui si sentiva profondamente inadeguata, e una volta giunta a quel traguardo smise di interrogarmi sullo scibile umano da Freud ai giorni nostri e si rilassò, riconoscendo anche il senso di ciò che aveva fatto nel nostro rapporto: comportandosi con me come il padre si comportava con lei e osservando la mia calma serafica “no, non ho letto nemmeno questo, mo me lo segno” era riuscita ad affrontare una grande prova con successo. Per festeggiare mi disse che si era comprata un paio di fumetti che le erano sempre piaciuti ma che non aveva mai comprato perché non voleva sprecare i soldi in sciocchezze. Beh, quelli li avevo letti tutti quanti.
Conclusioni
La relazione terapeutica con un paziente psicologo è un terreno fertile di sfide e opportunità uniche e la Control-Mastery Theory ci fornisce strumenti preziosi per navigare questo terreno complesso.
Non si tratta solo di comprendere le dinamiche specifiche del paziente, ma anche di riconoscere le proprie dinamiche interne e di gestire le proprie reazioni da parte del terapeuta. è fondamentale ricordare che, nonostante la comune esperienza professionale, il paziente psicologo non è semplicemente un collega ma una persona con una storia unica, un vissuto personale e un nucleo di vulnerabilità che richiede un’attenzione profonda e una comprensione sensibile.
Il terapeuta deve sapersi muovere con equilibrio, valorizzando le competenze del paziente, ma evitando di colludere con un rispecchiamento che potrebbe ostacolare il processo di guarigione.
Il lavoro terapeutico con pazienti psicologi richiede una profonda consapevolezza dei propri limiti e delle proprie capacità: terapeuta non deve mai dimenticare che il suo compito è quello di essere una guida nel processo di guarigione, non un esperto che si erge sopra il paziente. è fondamentale creare un setting terapeutico che permetta al paziente di sentirsi sicuro e compreso, di esprimere le proprie emozioni e paure senza temere di essere giudicato. Il terapeuta deve saper utilizzare la sua esperienza professionale in modo costruttivo, offrendo supporto e feedback senza mai sovrapporsi al ruolo del paziente o diventare un’istanza giudicante. Il terapeuta deve sapersi muovere con equilibrio e sensibilità, creando uno spazio dove il paziente possa sentirsi libero di esplorare le proprie dinamiche interne e di affrontare le proprie sfide con autenticità.
Favorire il senso di sicurezza, aspetto imprescindibile per la costruzione della relazione psicoterapeutica, può a volte essere complesso all’interno di questa specifica diade, ma allo stesso tempo particolarmente stimolante e prezioso.
Ritengo che attingere al proprio vissuto, alle proprie esperienze – senza necessariamente comunicarlo al paziente, chiaramente – possa essere un’operazione molto utile e terapeutica anche per il terapeuta stesso, affinché il rischio di sentirsi “arrivato e onnisciente” si allontani ogni giorno di più.
Non importa quanto tempo passi, non importa quanto la nostra esperienza clinica aumenti né quanto sentiamo di padroneggiare una determinata situazione: l’altro rimane un mistero, una finestra aperta su un mondo unico in cui dobbiamo saperci muovere con cautela e rispetto, con qualche incursione coraggiosa ben strutturata dentro di noi.
Ho imparato e continuo ad imparare molto nel lavoro che faccio ogni giorno con pazienti che sono anche colleghi e sono molto grata di avere l’occasione di essere al loro fianco mentre scoprono alcune parti di sé, mentre si concedono di guardarsi con nuovi occhi, mentre apprendono quanto anche loro hanno diritto ad essere ascoltati e non solo ad ascoltare.
Ritengo che sia un grande privilegio lavorare con persone che nella vita hanno scelto la complessità di una posizione scomoda come la nostra, che spesso sanno leggere l’altro meglio di quanto riescano a leggere se stessi, e fare questi passi è davvero faticoso, spaventoso ma profondamente vitale.
Perché, è proprio vero, il sentiero non scappa. Ed è meglio se cerchiamo insieme.

Bibliografia
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