
di Omar Bellanova
La sessualità rappresenta uno degli aspetti più complessi e affascinanti dell’esperienza umana, influenzando identità, relazioni e benessere psicologico. In passato, quando una problematica sessuale emergeva in una terapia di matrice cognitivo-comportamentale, si tendeva a trattarla con un intervento separato e mirato e con un focus specifico sulla risoluzione del problema. Questo approccio derivava da modelli orientati prevalentemente alla risoluzione dei sintomi e agli aspetti emotivi e cognitivi ad essi associati (Fenelli, Lorenzini, 1999; Meston, Buss, 2007).
Era quello che era stato insegnato anche a me, un modo molto preciso e mirato di lavorare sul problema sessuale del paziente. Accadeva che, quasi come se si trattasse di un’estrazione odontoiatrica, molti colleghi mi facessero la classica richiesta “C’è un mio paziente con cui lavoro da tempo e di recente mi ha parlato di un suo problema sessuale. Va bene se lo mando da te per lavorarci?”
Qualcosa però spesso non tornava. Il paziente che veniva inviato per un percorso centrato sul problema sessuale spesso continuava ad aver bisogno di parlare di tutti gli argomenti aperti nel suo percorso di terapia ed era abbastanza difficile tenerlo concentrato unicamente sul lavoro sui sintomi sessuali. Ogni tentativo in questa direzione era percepito spesso da entrambi come una forzatura. Inoltre, ogni volta che si lavorava in modo più profondo sulla problematica sessuale andando a indagare i processi sottostanti al sintomo e interessandosi ai temi centrali della sua vita, il paziente esclamava “caspita è vero, infatti di questa cosa ne ho parlato spesso con il suo collega!” Qualcosa mi sfuggiva. L’impressione era come se il paziente, portando la problematica sessuale, stesse cercando di governare qualcosa di più ampio.
Insomma, questa scissione tra i problemi sessuali e il percorso terapeutico generale sembrava spesso forzata e artificiosa nonostante i modelli di terapia sessuale in cui ero formato al tempo fossero di matrice integrata. Difatti la Terapia Mansionale Integrata (TMI) (Dèttore, 2004; Fenelli, Lorenzini, 1999; Kaplan, 1974; 1983), uno dei modelli tutt’oggi di elezione più affidabile, è strutturata proprio al fine di lavorare contemporaneamente sul sintomo sessuale e su ciò che ne è alla base. Lo scopo di questo modello è appunto intervenire su credenze, emozioni e comportamenti presenti nella sfera sessuale del paziente e lavorare per modificarli in modo da risolvere la disfunzione che alimentano (Dèttore, 2004; Fenelli, Lorenzini, 1999; 2012). Ma nella pratica sembrava che, più si andasse a fondo nell’esplorazione dei processi, più veniva toccata una matrice comune tra il sintomo sessuale e i temi di vita centrali del paziente. Insomma, sia nella mia apparentemente ricca “borsa degli attrezzi da sex therapist” sia tra i volumi dell’enciclopedia mentale dal titolo “tutto ciò che devi sapere sul sesso” sembrava mancasse qualcosa. C’era da rimettersi alla ricerca per colmare quel gap e comprendere bene se quello che stavo offrendo ai pazienti fosse ciò di cui avevano davvero bisogno.
Per comprendere meglio questa mia crisi scientifica potrebbe essere utile fare un percorso a ritroso partendo dalle origini della “Sexual Therapy”, ripercorrendone brevemente il cammino scientifico al fine di cogliere le varie componenti disseminate lungo la sua evoluzione e che ci possano indirizzare verso la ricerca dell’anello di congiunzione invisibile che esiste tra psicoterapia e terapia sessuale.
Nonostante il mio approccio sposasse la visione di un modello bio-psico-sociale, che riconosce l’interconnessione tra fattori biologici, psicologici e sociali nella comprensione e nel trattamento della sessualità, mi trovavo di fronte a un limite intrinseco: sebbene utile, questo modello non riusciva a catturare l’intera complessità della sessualità umana. La sessualità, infatti, sfugge a definizioni assolute e a metodi di intervento che pretendano di essere esaustivi. Questo perché ogni individuo, rispettando le leggi biologiche, costruisce la sua sessualità in base agli aspetti centrali della sua identità e personalità, che sappiamo essere unici. Come potevo quindi accettare questo limite e al contempo essere di aiuto al paziente che mi portava in terapia una problematica sessuale? Come possiamo quindi raggiungere queste diramazioni intrinseche così uniche e variegate nella mente del paziente?
Questa complessità mi ha portato a riflettere su un percorso metodologico che potesse offrire un approccio più sfaccettato e umano a partire da due domande di partenza centrali che credo rappresentino una chiave per affrontare in modo integrato il lavoro sulla sessualità. La prima è: di cosa ha bisogno uno psicoterapeuta quando si confronta con una problematica sessuale portata in terapia dal paziente? La seconda, altrettanto essenziale è: di cosa ha bisogno il paziente stesso quando porta in terapia una questione legata alla sua sessualità?
Queste domande ci obbligano a spostare lo sguardo oltre la semplice gestione del sintomo sessuale per considerare le radici psicologiche, le esperienze emotive e le dinamiche relazionali che si intrecciano nella vita del paziente. Soltanto attraverso questa prospettiva è possibile concepire un intervento che non sia settoriale ma tenga conto del significato personale, dei bisogni e delle sfide specifiche di ciascun individuo al fine di favorire un funzionamento proattivo all’interno della propria dimensione sessuale.
Da quando Masters e Johnson hanno pubblicato i risultati del loro imponente studio “Human Sexual Response” (1966) descrivendo il funzionamento della sessualità umana, quest’ultima è diventata clinicamente più tangibile, osservabile, curabile. Fino ad allora, questa dimensione dell’essere umano, per fattori socioculturali, veniva spesso relegata sotto un velo di pudore che l’interesse scientifico aveva progressivamente sollevato a partire dalla metà del diciannovesimo secolo. Masters e Johnson, rendendo scientifico il “voyeurismo”, ci hanno fornito un’idea dettagliata di ciò che avveniva sotto le lenzuola, introducendo strumenti e misuratori. Così, il mondo clinico ha potuto ricevere il primo importante punto di riferimento scientifico per la comprensione della sessualità: la curva della risposta sessuale. Questo grafico rappresenta in un modello lineare il modo in cui il corpo maschile e femminile, con riferimento maggiore sui genitali, reagiscano agli stimoli sessuali attraversando quattro fasi distinte: eccitazione, plateau, orgasmo e risoluzione. Da qui il nome di modello EPOR. Ciò che veniva quindi proposto era una visione di come dovrebbe essere normativamente un rapporto sessuale, tracciando una linea netta tra ciò che è “sano” e ciò che è “patologico” e fornendo così i criteri per la diagnosi e il trattamento del paziente rispetto una problematica sessuale.
Masters e Johnson non si limitarono a questo, idearono anche un vero e proprio modello di intervento basato su mansioni (compiti) prescritte alle coppie in cura presso la loro clinica di Saint Louis.
Prevedevano infatti una serie di fasi del trattamento volte a riportare i soggetti affetti da problematiche sessuali sulla “giusta via”, ovvero quella prevista dalla standardizzazione della curva della risposta sessuale. Le fasi di eccitazione, plateau, orgasmo e risoluzione rappresentavano i punti critici in cui i pazienti potevano incontrare difficoltà, ovvero i possibili momenti di “caduta” lungo la curva. In pratica, il principio era quello di favorire un processo fisiologico nel suo decorso naturale al fine di permettere ai soggetti coinvolti il completamento del rapporto sessuale che si poteva considerare iniziato con l’eccitazione e concluso con il raggiungimento dell’orgasmo e della conseguente fase di risoluzione.
Le mansioni sviluppate da Master e Johnson per affrontare queste problematiche consistevano in diversi esercizi specifici che i pazienti dovevano svolgere. Lo scopo era promuovere risposte sessuali più funzionali e quindi attivare o ripristinare le funzioni sessuali compromesse favorendo il “corretto svolgimento” ed esito del rapporto sessuale. Questo repertorio di esercizi standardizzati e validati scientificamente è stato un lascito significativo, e la sua efficacia ha avuto un impatto notevole nel trattamento delle disfunzioni sessuali per molti anni. Tuttavia, questo approccio era eccessivamente meccanicistico e funzionale.
Una terapia basata principalmente su una soluzione biologica e meccanicistica del sintomo poteva trasformarsi in qualcosa di troppo sterile, limite di cui Masters e Johnson stessi hanno riferito di essere consapevoli in diversi loro scritti.
Una delle principali criticità riconosciute nella terapia mansionale era l’eccessiva focalizzazione sugli organi genitali e la mancanza di considerazione per una fase altrettanto cruciale: quella del desiderio. Helen Singer Kaplan (1974) ha quindi proposto una revisione significativa del modello, introducendo la “fase del desiderio” come fase che precede quelle descritte nella curva di Master e Johnson. Gli studi della Kaplan si basavano su un contesto clinico e quindi sulla pratica terapeutica piuttosto che su ricerche sperimentali di laboratorio. Kaplan e Lief osservano infatti nell’esperienza clinica che molte delle loro pazienti non riportavano alcun desiderio di intraprendere attività sessuali con i partner.
Anche se oggi può sembrare strano, per i tempi parlare in modo scientifico di desiderio sessuale femminile non era affatto scontato, come vedremo più nel dettaglio a breve.
Sebbene gli studi della Kaplan, quindi, non fossero basati su un campione rappresentativo della popolazione generale, ma su pazienti con problematiche sessuali, il loro contributo è stato determinante. Infatti, Kaplan ha avviato un cambiamento paradigmatico nel campo della sessuologia spostando l’attenzione verso una visione più integrata della sessualità, e ha sottolineato l’importanza di considerare non solo le risposte fisiologiche, ma anche i vissuti psicologici e le dimensioni emotive che fanno parte del mondo interiore del paziente e che meritano un’attenzione approfondita.
Degno di nota è un altro punto importante del modello proposto della Kaplan: eccitazione e plateau non sono distinti tra loro, ma vanno considerati lungo un continum unico, una sorta di unione di momenti che si incontrano nel corso di un’accelerazione nella fase di eccitazione che è preceduta dal desiderio. In tutto questo si definisce in quello che è noto come modello DEOR di Kaplan: desiderio, eccitazione, orgasmo e risoluzione.
Oggi in letteratura questi due modelli sono chiamati lineari, anche se va precisato che Masters e Johnson stessi nel loro libro parlavano di “ciclo della risposta sessuale”, ma terremo questa definizione per distinguerli da quelli successivi che invece sono definiti modelli circolari. Di tale circolarità si comincia a parlare nel 1997, quando Whipple e Brash-McGreer propongono un primo modello che rappresenta in modo circolare la risposta sessuale femminile, affermando che non tutte le donne seguono un andamento lineare della risposta sessuale. Questo concetto si basa sul Percorso di Stimolo Erotico di Reed, e include quattro fasi: seduzione (che comprende il desiderio), sensazioni (che include eccitazione e plateau), abbandono (con include l’orgasmo) e riflessione (o riconsiderazione, che si riferisce ad un lasso di tempo più lungo rispetto la già nota fase della risoluzione). Trasformando il modello di Reed in una struttura circolare, Whipple e Brash-McGreer mostrano come un’esperienza sessuale piacevole possa alimentare il desiderio nella donna portandola nuovamente alla fase della “seduzione” in vista di un successivo incontro. Al contrario, se durante la riflessione l’esperienza non è elaborata come gratificante, la donna potrebbe non sentire il desiderio di ripeterla e quindi il circolo si interromperebbe. Con l’introduzione di questa fase viene rappresentata in modo chiaro un’ipotesi, oggi ritenuta abbastanza plausibile, su come le varie esperienze sessuali possano essere concatenate e collegate tra loro in un’ottica circolare che Masters e Johnson non avevano potuto cogliere del tutto in quanto la loro ricerca era limitata a ciò che era rilevabile in una finestra temporale più ristretta nel laboratorio, in cui, per forza di cose risultava esclusa dall’indagine un prima e anche un dopo.
Nonostante questa innovazione del ciclo sessuale femminile e la rilevanza dell’elemento circolare, le quattro fasi del modello proposto da questi due autori non hanno avuto un impatto significativo sullo sviluppo della letteratura successiva sull’eccitazione sessuale. Tuttavia, il loro tentativo di allontanarsi da una visione strettamente lineare rappresenta un passo importante nella comprensione della variabilità delle risposte sessuali femminili.
Personalmente trovo molto interessante mettere in evidenza un aspetto di questo modello, ovvero che la descrizione delle varie fasi descritte si discosti significativamente da quelle usate in precedenza per un fattore: Whipple e Brash-McGreer non si limitano a descrivere un aspetto fisiologico o un vissuto psicologico e basta, ma nella loro descrizione delle quattro fasi l’individuo è rappresentato come un elemento attivo che seduce, si lascia andare e valuta il proprio vissuto all’interno di un’ottica più integrata e continuativa. Questa prospettiva è assolutamente preziosa per un clinico che oggi si trova a lavorare sugli aspetti sessuali del paziente. La prospettiva di una risposta circolare oggi può trovare spiegazione anche nella teoria del sistema di impegno sociale, descritto da Porges all’interno della teoria polivagale, che si basa sull’idea che il sistema nervoso umano sia influenzato dalle interazioni sociali. In presenza di relazioni positive e sicure, si favorisce un funzionamento ottimale del sistema nervoso e una riduzione delle risposte allo stress (Porges, 2001; 2003).
Inoltre, il sesso inizia a essere delineato su un continuum di esperienze concatenate in cui l’individuo è parte attiva. Rispetto ad azioni e vissuti in cui l’individuo si adatta, costruisce e rifinisce la propria dimensione sessuale, emerge un fine specifico: rendere l’esperienza non solo più funzionale, ma anche più positiva e appagante in un modo adattivo. Questo processo sottolinea quindi come la sessualità sia un’esperienza circolare che si può imparare a vivere progressivamente, in cui l’essere umano è rappresentato come un individuo attivo e intenzionale, capace di adattarsi e migliorare le proprie esperienze sessuali nel tempo.
Suggerisco quindi di mantenere un focus attentivo sia sul concetto di riconsiderazione sia su quello dell’immagine della donna come agente attivo che, nel desiderio, seduce. Ciò che qui si inizia a delineare nella nostra ricostruzione è il profilo di un individuo che valuta e monitora le proprie esperienze sessuali e, sulla base di questo, mette in atto delle azioni intenzionali al fine di vivere e rendere migliore la propria esperienza sessuale.
Rosemary Basson (2001), psichiatra e sessuologa canadese, è rinomata per aver sviluppato un modello di risposta sessuale basato sull’intimità. Il suo lavoro parte dall’assunto che la risposta sessuale femminile sia diversa da quella maschile. Secondo Basson, mentre i modelli lineari (EPOR e DEOR) descrivono adeguatamente la risposta sessuale maschile, essi non sono altrettanto validi per comprendere quella femminile, influenzata da una serie di motivazioni più complesse (in realtà, molte delle sue scoperte oggi sappiano essere valide anche per il funzionamento sessuale nell’uomo.)
Nel modello biopsicosociale di Basson, le fasi della risposta sessuale già note (desiderio, eccitazione, orgasmo) non seguono necessariamente una sequenza lineare e separata. È possibile che queste fasi si verifichino contemporaneamente o si sovrappongano addirittura, suggerendo che la risposta sessuale femminile sia più dinamica di quanto descritto dai modelli tradizionali.
In particolare, Basson nella sua esperienza clinica aveva osservato che molte donne, specialmente in relazioni a lungo termine (almeno 6 mesi), possono iniziare l’attività sessuale partendo da uno stato di desiderio sessuale “neutrale”, e magari, solo attraverso una stimolazione adeguata si attiva poi il desiderio vero e proprio. In aggiunta, contrariamente alla concezione tradizionale, l’attività sessuale e ciò che ne guida l’inizio non è necessariamente finalizzato al raggiungimento del climax, ma piuttosto si orienta al soddisfacimento anche di altri bisogni, come il desiderio di intimità e il legame emotivo con il partner. Infatti, molte donne possono iniziare un rapporto sessuale con l’intenzione di appagare proprio il loro desiderio di vicinanza e intimità con il partner piuttosto che essere guidate da un bisogno di “sfogo” orgasmico.
Il modello di Basson è quindi molto interessante perché, per la prima volta, offre una prospettiva nuova e più ampia sul desiderio sessuale, ampliando l’idea introdotta da Helen Kaplan. Il desiderio sessuale femminile può quindi emergere anche in risposta a stimoli specifici e in determinate condizioni, e non solo spontaneamente come si credeva. Ne deriva che la decisione di intraprendere un’attività sessuale non dipende esclusivamente dalla presenza o meno di desiderio sessuale, ma da una combinazione di fattori come la qualità della relazione, la comunicazione emotiva e la gestione delle tensioni che possono essere ritenuti “stimoli innescanti”. Nello specifico, quindi, il desiderio sessuale può essere di due tipi: reattivo (DR), quando si manifesta in risposta a uno stimolo esterno, o spontaneo (DS), quando emerge internamente senza stimoli esterni. Il desiderio, quindi, non necessariamente deve precedere l’eccitazione, ma può verificarsi successivamente, magari attraverso un’influenza reciproca tra i due processi di desiderio ed eccitazione. In pratica, tutto questo apre un universo di informazioni rispetto al legame del sesso con dimensioni soggettive che in psicoterapia sarebbe molto utile conoscere.
Nel modello ciò che è rilevante è quindi la qualità della connessione emotiva tra i partner. Quando una donna accetta gli stimoli sessuali in contesti intimi favorevoli, passa da uno stato neutrale a uno stato di eccitazione, caratterizzato dalla ricerca di ulteriori stimoli sessuali, che siano fisici, psichici o legati all’intimità, i quali contribuiscono circolarmente all’aumento del desiderio e portano eventualmente al picco del piacere dell’orgasmo. Immaginiamo quindi quante implicazioni possa avere questo concetto in ambito psicoterapico, e quanto potrebbe essere dannoso limitarsi a considerare la sessualità in un un’ottica meramente funzionale. Sebbene il desiderio reattivo sia il più comune, in ogni caso è bene ricordare che Basson riconosce comunque che alcune donne possono sperimentare il desiderio spontaneo attraverso pensieri, sogni o fantasie.
L’aspetto su cui è utile allora porre attenzione sono le condizioni, presenti o non presenti, che rendono possibile che l’individuo sia o no “sexual responder”, ovvero sensibile agli stimoli sessuali, cosa che, ricordiamo, può accadere anche in assenza di desiderio di base. Questo è un altro punto su cui invito a mantenere un focus attentivo.
É altrettanto interessante anche la visione dell’orgasmo che viene proposta da Basson dove, a differenza dei modelli lineari precedenti, che consideravano l’orgasmo un requisito essenziale per la soddisfazione sessuale ritenendolo una tappa obbligata, in questo modello né l’orgasmo né la risoluzione sono necessari per raggiungere il piacere e la soddisfazione sessuale. Eccitazione e soddisfazione quindi sono da ritenersi esperienze soggettive e possono verificarsi anche senza l’orgasmo.
Riepilogando, l’arousal sessuale è sensibile alla presenza di determinati fattori quali:
- Il desiderio sessuale
- La vicinanza emotiva
- Il legame affettivo
- L’impegno nella relazione
- Il desiderio di sentirsi attraenti
- La condivisione del piacere fisico
- Il piacere dell’intimità emotiva
Forse non c’è da stupirsi che negli ultimi anni questo modello abbia trovato applicazione anche nella terapia sessuale con gli uomini, dimostrando, con le dovute eccezioni, la sua rilevanza in ambito clinico per entrambi i sessi.
Personalmente ritengo che in un percorso di evoluzione e crescita personale è possibile per un soggetto, attingendo dall’esperienza, imparare a sviluppare una padronanza di queste dimensioni e viverle in un modo fruibile e soddisfacente nella propria sessualità.
Diversi studi empirici hanno provato ad identificare quale di questi modelli finora citati potesse rappresentare meglio la risposta sessuale femminile domandando a soggetti di questa popolazione di indicare in quale dei modelli si riconoscessero rispetto il funzionamento sessuale (Sand e Fisher, 2007; Giles e McCabe, 2009; Giraldi, Kristensen e Sand, 2015). Spesso l’esito di queste ricerche era che le donne più soddisfatte della propria vita sessuale tendevano a riconoscersi meglio descritte nei modelli lineari (EPOR e DEOR), mentre le donne con dei disagi nella sfera sessuale si riconoscevano meglio nel modello biopsicosociale della Basson. Seppur la controversia scientifica rispetto alle metodologie di indagine di questi studi sia ancora aperta, è innegabile che questi ci forniscano un’importante occasione di riflessione rispetto un concetto importante: non esiste una prospettiva unica con cui è possibile guardare alla sessualità, e soprattutto le condizioni di benessere o malessere che viviamo ce la fanno percepire in modi diversi.
David Barlow (1986) ha svolto un’importante disamina della letteratura considerando sia soggetti con problematiche sessuali, definiti “non funzionali”, sia soggetti senza difficoltà sessuali, definiti soggetti “funzionali”.
Il ragionamento e gli studi di Barlow si sviluppano all’interno di una cornice scientifica in cui sono messi in discussione alcuni capisaldi della terapia sessuale, primo fra tutti l’idea che l’ansia possa esclusivamente inibire il funzionamento sessuale. Bancroft (1970) e altri autori avevano osservato che, per alcuni soggetti, l’esposizione a un pericolo poteva addirittura avere un effetto positivo sull’eccitazione sessuale. Una serie di studi successivi (Barlow, Sakheim e Beck, 1983; Zilbergeld e Ellison, 1980) hanno confermato questa ipotesi, evidenziando che l’ansia non solo non è necessariamente un fattore eziologico alla base delle disfunzioni sessuali, ma che, in soggetti capaci di gestire stimoli stressanti, ovvero funzionali, può persino fungere da facilitatore. Da che cosa dipende tutto questo?
Inoltre, questo filone di studi ha messo in evidenza che la risposta cognitiva delle due categorie di soggetti, funzionali verso disfunzionali, segue dei trend differenti nei vari compiti sperimentali. I soggetti funzionali sono meno performanti nella risposta sessuale durante la somministrazione di stimoli erotici solo se l’interferenza cognitiva dell’esperimento è neutra rispetto al contesto sessuale. Invece, se l’interferenza è di tipo sessuale, la performance rispetto all’arousal sessuale non ne risente, come se la parte del cervello che elabora e processa la risposta sessuale fosse così funzionale da trovare il modo di proseguire e non essere interrotta.
Questi risultati suggeriscono che la capacità di orientare e regolare i processi attentivi e cognitivi in contesti sessuali siano un elemento chiave di differenziazione tra soggetti funzionali e disfunzionali.
Il lavoro di Barlow è interessante per diversi motivi: il primo è dato dalla differenza nel funzionamento tra i soggetti “funzionali” e quelli “disfunzionali” di fronte a problematiche e interferenze nei vissuti sessuali, come se i primi avessero uno schema di funzionamento più adattivo rispetto alle varie difficoltà, sia a livello emotivo che cognitivo. Il secondo punto interessante è l’evidenziare aspetti del funzionamento sessuale che non sono necessariamente funzionali o disfunzionali, ma sono legati a un processo regolatorio più sofisticato di quanto si fosse creduto fino ad allora. Fino a quel momento il funzionamento del sistema sessuale era stato visto da un’unica prospettiva, quella dell’eccitazione, che poteva esserci o non esserci. Il sistema sessuale può invece ritenersi funzionale tanto nell’attivare una risposta sessuale quanto nella sua capacità di inibire tale risposta al momento opportuno.
A questo punto, due recenti modelli, molto simili tra loro, possono aiutarci ad approfondire questo concetto fornendoci un altro tassello importante nella comprensione del nostro funzionamento sessuale.
Il Dual Control Model o Modello del Doppio Controllo della Risposta Sessuale è stato sviluppato nel 1995 da Bancroft e Janssen presso il Kingsey Institute e si basa proprio sull’idea che esistano due sistemi, con basi neurologiche distinte, deputati all’eccitazione sessuale (SE) e all’inibizione sessuale (SI). Per Bancroft questi due sistemi agiscono in modo adattivo e indipendente tra loro. Il Modello del Doppio Controllo è un modello di tipo stato-tratto. Ciò significa che il bilanciamento tra eccitazione e inibizione sessuale si verifica in una situazione data, e che esiste inoltre una variabilità individuale legata caratteristiche individuali che caratterizzano la propensione a funzionare di tale processo. Insomma, per la gioia dei terapeuti, possiamo affermare che non siamo tutti uguali e che certi funzionamenti non possono essere chiusi in una dicotomia sano/patologico, ma vanno considerati in una prospettiva “caso-specifica” in cui lo scopo di un trattamento non è quello di ripristinare o attivare un funzionamento, ma di aiutare un individuo a trovare il miglior equilibrio possibile nella sua unicità per vivere al meglio la propria sessualità.
Una delle grandi rilevanze di questo modello risiede nel fatto che, fino ad allora, ovvero prima di Barlow, gli studi si erano concentrati sui fattori legati all’attivazione sessuale, ma i meccanismi legati ai processi di inibizione non erano stati considerati abbastanza. Il processo di arousal sessuale non è più quindi un processo unidimensionale, ma bisogna tenere conto di un’interazione complessa che avviene con processi inibitori che hanno anch’essi una loro utilità. Questa idea che i processi umani siano regolati da forze e controforze è uno degli aspetti da tenere presente nella nostra “lavagna degli appunti”. Per non dilungarmi ulteriormente, non scenderò nei dettagli di questo meccanismo e mi limiterò a riassumere brevemente da cosa sono attivati i due sitemi SE e SI.
Mentre il Sistema di Eccitazione (SE) si attiva producendo un aumento dell’arousal sessuale in risposta a stimoli di tipo erotico, fantasie, sensazioni fisiche e stimolazioni sensoriali, il Sistema Inibitorio (SI) ha senso quando l’attività sessuale è percepita come “non vantaggiosa”. In particolare, il SI si attiva quando si teme una performance disastrosa oppure quando il sesso potrebbe portare gravi conseguenze, avvero quando si ha una proiezione di pericolo.
Il Modello del Punto di Svolta Sessuale (Sexual Tipping Point – STP) sviluppato da Perelman (2016, registrato nel 2013), propone un’interessante visione biopsicosociale che trova il modo di raggruppare gli aspetti mentali e fisici (MAP – Mental and Physical) che agiscono e interagiscono tra loro inibendo o attivando il nostro funzionamento sessuale. Questo modello può sembrare molto simile al Modello del Doppio controllo, e difatti lo è, ma con alcune differenze. La rappresentazione grafica di tale modello è quella di una bilancia a due piatti, dove su un piatto vengono messi tutti i fattori (Fisiologici e Psicologici) inibitori o negativi e sull’altro i fattori eccitatori o positivi. L’equilibrio si determina a seconda del fatto che possano prevalere, in certe condizioni, i fattori positivi o quelli negativi.
A questo punto è possibile tracciare alcune conclusioni rispetto alla complessità del funzionamento sessuale. Innanzi tutto, come abbiamo appena visto, il funzionamento sessuale non è funzione della sola eccitazione, e quindi all’arousal, ma anche della capacità di inibire la risposta al momento opportuno. Questa capacità dipende da fattori sì fisiologici, ma soprattutto emotivi e cognitivi, che sono in stretta interazione tra loro e connessi a un livello di risposta riflessa fisiologica più basilare. Le funzioni mentali superiori, consce e inconsce, strutturano l’esperienza sessuale in funzione delle esperienze pregresse della persona e regolano l’equilibrio tra attivazione e inibizione in funzione delle situazioni contestuali.
Nella mia ipotesi, tutta questa sofisticata architettura non funziona quindi basandosi su processi automatici e basta, ovvero in modo passivo, ma l’individuo è in una certa misura in grado di governarli e padroneggiarli. La terapia sessuale in realtà ha già evidenziato questa capacità. Se consideriamo, ad esempio, una difficoltà sessuale come l’Eiaculazione Precoce, possiamo attribuirne la causa all’incapacità di un soggetto di padroneggiare i processi di inibizione sessuale che dovrebbero agire quel tanto da consentire un prolungamento del tempo utile al riflesso di eiaculazione per garantire il godimento proprio e del partner. Questa inibizione deve comunque contemporaneamente essere dosata per mantenere l’arousal. In soggetti deficitari, la terapia mansionale agisce proprio sulla capacità di focalizzazione sugli stimoli sessuali, che in tali soggetti è molto limitata o funziona male. Esercizi come lo start-stop aiutano il soggetto a sviluppare un controllo attivo sul riflesso eiaculatorio, ecc. In questo tipo di lavoro il soggetto sviluppa una certa “expertise” rispetto al proprio funzionamento sessuale, che si concretizza in una vera e propria capacità di riconoscere il proprio piacere e autoregolarlo attraverso delle azioni concrete (Fenelli, Lorenzini, 1999) che, come vedremo, possiamo ritenerle alla base di una vera e propria capacità agentiva.
In effetti, possiamo a questo punto considerare l’atto di riuscire ad avere un controllo attivo su questo sistema una vera e propria azione agentiva, ovvero un’espressone della propria agentività sessuale (o sexual agency).
Ma ciò che è riscontrabile in questi pazienti è che l’architettura agentiva che permetterebbe loro di vivere la sessualità in modo sano e appagante non si è sviluppata in modo adeguato.
La promozione dell’agentività del paziente, direttamente o indirettamente, è ciò che può accumunare diversi modelli terapeutici ed è un elemento chiave in diverse psicoterapie (Williams & Levitt, 2007), seppur non esiste una definizione condivisa del costrutto di agentività.
Il modello di agentività che ho scelto di utilizzare per sviluppare quello di sexual agency è quello proposto da Tomasello (2023) per via della sua grande capacità di adattarsi e dare una spiegazione plausibile a tutti i modelli di risposta sessuale finora descritti e contemporaneamente fungere da ponte con un modello di intervento terapeutico: la Control Mastery Theory.
L’agency (o agentività) si riferisce alla capacità degli organismi, specialmente dei primati e dei mammiferi, di assumere un ruolo attivo nel dirigere e controllare le proprie azioni. Si distingue dalla semplice complessità comportamentale in quanto coinvolge decisioni attive e informate prese dagli individui, piuttosto che controllate esclusivamente dalla biologia. In sostanza, l’agency implica la capacità di prendere decisioni autonome e orientate verso gli obiettivi, anche se influenzate dalle capacità evolutive dell’organismo e dalle circostanze ambientali (Tomasello, 2023).
L’agentività non si limita al prendere decisioni, ma implica un ruolo proattivo e consapevole nel modellare e gestire le proprie esperienze di vita.
La teoria proposta da Michael Tomasello ridefinisce l’idea di agentività umana presentandola come un sistema di autoregolazione distribuito su due livelli gerarchici: processi esecutivi e processi metacognitivi. Entrambi i livelli operano in sinergia per favorire scelte e azioni efficaci ed efficienti.
I processi esecutivi costituiscono il primo livello e regolano l’attenzione e il comportamento al fine di perseguire obiettivi specifici. Agiscono in maniera diretta, rispondendo alla domanda “cosa” viene regolato, “come”, attraverso meccanismi specifici, e “dove” avviene tale regolazione, sia a livello individuale che in contesti di interazione condivisa. I processi metacognitivi, posti su un livello superiore, controllano e affinano le azioni dei processi esecutivi, offrendo una riflessione costante sull’efficacia e sull’adattamento delle strategie comportamentali.
Nel nostro esempio su una disfunzione da Eiaculazione precoce, sviluppare o mettere in pratica un’azione agentiva significherebbe saper focalizzare l’attenzione su se stessi (monitoraggio) e compiere un’azione finalizzata, intervenendo sui processi di eccitazione, come ad esempio modificare la stimolazione che si sta vivendo, controllare il proprio respiro, ecc., oppure intervenire sul partner con delle richieste opportune come ad esempio cambiare o fermare la stimolazione (agentività condivisa) permettendo quindi di avere un controllo attivo sul riflesso eiaculatorio. Il tutto ha quindi il fine di ottenere una relazione sessuale soddisfacente per entrambi i partner. L’agentività, in altre parole, (Gospodinoff, 1989 et. al.) consente di avere conoscenza e padronanza di una funzione fisiologica. Chi vuole avere una piccola dimostrazione di come questo accada può provare a fare una semplice azione: trattenere il respiro. Dopo aver fatto questo esperimento, siccome non siamo tutti Umberto Pellizzari, riprendiamo a respirare con questa piccola evidenza pratica: è umano riuscire a sviluppare delle capacità che ci permettono di avere un controllo e una padronanza su delle funzioni fisiologiche e che lo possiamo fare guidati da uno scopo preciso, anche nella nostra camera da letto.
La nostra capacità agentiva però si definisce all’interno di una dimensione di significati idiosincratici individuali. Per comprendere questa affermazione pensate al gioco da tavolo del piccolo chirurgo. Immaginate che, dotati di una pinzetta, dovete afferrare dei pezzetti di plastica sparsi per il corpo del malcapitato paziente dovendo stare assolutamente attenti a non urtare le parti metalliche site nei bordi per non fare scattare l’allarme. Insomma, ci sono delle regole che definiscono e limitano la nostra azione sia nella dimensione esecutiva sia in quella metacognitiva.
Quindi, il nostro paziente potrebbe avere difficoltà nel mettere in pratica una determinata focalizzazione sensoriale durante l’esperienza sessuale, o nel compito affidato a casa dal terapeuta, perché, nel suo programma, è possibile che questo abbia un significato specifico, ad esempio anteporre il proprio piacere a quello dell’altro, e faccia di conseguenza scattare l’allarme di una regola, ma senza che ciò avvenga consapevolmente, senza cioè che questa violazione sia cosciente, riconoscibile e senza che quindi i possibili vissuti di allarme, colpa e disagio che conseguono all’infrazione siano consciamente esperiti, pensati.
Entriamo quindi in quella dimensione clinica in cui nel trattamento della Terapia Mansionale Integrata potrebbe sfuggirci qualcosa. Nel caso specifico, il paziente al quale è stato detto di focalizzarsi sulle proprie sensazioni al fine di comprendere come sviluppare la capacità di governarle potrebbe non seguire esattamente le indicazioni del terapeuta e fare altro. Se state pensando che potrebbe trattarsi di non aderenza al trattamento o impasse terapeutica vi sbagliate.
Focalizzarsi sul proprio piacere e non mettere al centro quello dell’altro, per quanto posso sembrare un’azione naturale, non è un’azione così scontata. Ritorniamo sul sistema di monitoraggio metacognitivo: quello che può accadere a quel livello potrebbe essere che dentro di noi vi sia una regola inconscia che ci fa pensare che focalizzarsi sul proprio piacere non sia una buona idea.
A questo punto, conosciamo come dovrebbe funzionare la sessualità, conosciamo la regola a livello esperienziale e comportamentale, ma ci occorre un modello di intervento che ci consenta comprendere come la nostra mente organizza questo sistema di regole che altrimenti non siamo in grado di cogliere, anche perché molte di queste regole non sono affatto esplicite e il paziente le mette in pratica pur non sapendo coscientemente di farlo.
La Control-Mastery Theory (CMT; Gazzillo, 2021, 2023; Silberschatz, 2005; Weiss, 1993; Weiss et al., 1986), la cui traduzione è Teoria della Padronanza e del Controllo, è un meta-modello integrativo di matrice cognitivo-dinamica e relazionale. Questo modello del funzionamento mentale umano, sia sano sia patologico, ci permette di avere una lettura chiara di ciò che avviene nella mente umana.
Per comprendere i principi gerarchici attraverso cui l’individuo organizza le proprie regole interne, la CMT, in linea con una visione evoluzionista, parte dall’assunto che la motivazione sovraordinata che regola il funzionamento mentale sia l’adattamento alla realtà (Hartmann, 1939) finalizzato al raggiungimento di obiettivi di sviluppo evoluzionisticamente fondati e sani. La sopravvivenza per gli esseri umani è garantita principalmente dal mantenimento della vicinanza con gli altri significativi e dal fatto che questi siano disponibili a prendersi cura di noi. Fin dall’inizio della nostra vita, dunque, cerchiamo consapevolmente e inconsapevolmente di valutare se e in quale misura sia sicuro provare a perseguire questi obiettivi adattivi, se e in quale misura facendolo possiamo ricevere l’aiuto, il sostegno e la vicinanza dei nostri caregivers. Adattarsi alla realtà significa capire queste contingenze, sviluppare una conoscenza affidabile sulle cose, sulla moralità, su noi stessi, sulle altre persone, sulle nostre relazioni e sul mondo. Teoria della padronanza e del Controllo significa appunto che l’individuo è biologicamente predisposto a risolvere i problemi in cui si imbatte e padroneggiare i trami che subisce. Uno degli aspetti centrali del modello CMT è che la mente umana si dedica a realizzare tutto questo sia a livello consapevole che, soprattutto, inconsapevole, ovvero a livello inconscio.
Numerose ricerche ci hanno permesso di rilevare come la nostra mente percepisca ed elabori a livello inconscio gli stimoli ambientali, adattandosi in modo flessibile e funzionale alle circostanze (Bargh, 1990; Wegner, 2002; Wilson, 2002) e possa selezionare e perseguire i propri obiettivi in modo inconscio (Soon, Brass, Heinze e Haynes, 2008), orientando l’attenzione verso stimoli rilevanti per il loro raggiungimento. Il paradigma delle “funzioni superiori inconsce” (FSI) (per approfondimenti vedi Leonardi, Gazzillo & Dazzi, 2021), mostra come la mente umana, anche in assenza di consapevolezza, sia in grado di eseguire operazioni complesse e sofisticate. E il principio regolatore fondamentale del funzionamento mentale è quello della sicurezza (Weiss 2005).
Proprio guardando a questa peculiarità del modello, la mia ricerca tesa a gettare un ponte tra il trattamento delle problematiche sessuali e la psicoterapia sembra trovare un senso. Secondo la CMT, infatti, gli esseri umani inconsciamente elaborano e mettono in pratica piani complessi e prendono decisioni sulla base delle loro credenze e valutazioni della realtà. Insomma, ogni essere umano è guidato da una vera e propria strutturazione agentiva che agisce coscientemente e inconsciamente.
Le credenze sono strutture cognitivo-affettive che organizzano il modo in cui l’individuo percepisce il mondo, interpreta gli eventi e organizza il suo comportamento e la sua personalità. Descrivere una credenza equivale a descrivere ciò che un individuo reputa reale e giusto (ricordate le regole inconsapevoli di cui parlavamo su?).
Quando l’individuo nel corso della sua esperienza, soprattutto nell’infanzia, si trova ad affrontare esperienze avverse e/o traumatiche, ovvero qualsiasi situazione che metta in crisi in modo intenso, sistematico o cronico il suo senso di sicurezza egli cerca in prima istanza di capire quale sia stato il suo contributo al verificarsi della condizione di pericolo, e cosa debba fare per evitare che si verifichi nuovamente (Aafjes-van Doorn et al., 2020; Fimiani et al., 2020; Silberschatz & Aafjes-van Doorn, 2017). Un sottoinsieme di queste credenze, definito “patogene”, ha origine proprio in tali circostanze. Si definiscono credenze patogene quelle in cui l’individuo associa un pericolo (interno o esterno) al perseguimento di un obiettivo sano e adattivo. In virtù di quanto detto le credenze patogene, che possono essere consce o inconsce, verbali o procedurali, possiamo immaginarle strutturate secondo la formula “Se… allora”. Un esempio può essere dato da un bambino che non esce a giocare con gli amici perché ha visto che la madre si angoscia ogni volta che lui si allontana. In una situazione di questo tipo, il bambino potrebbe finire per sviluppare la credenza che “se si allontana dalle persone care allora le farà soffrire terribilmente.” I problemi psichici dei pazienti sono funzione di queste credenze patogene.
Pertanto, secondo la CMT la psicopatologia è espressione delle credenze patogene del paziente, in questo anche la difficoltà di sviluppare e/o mettere in atto un comportamento sessuale agentivo, funzionale e appagante.
Secondo la CMT il paziente che giunge in terapia porta con sé un piano inconscio teso a disconfermare le credenze patogene che gli impediscono di perseguire obiettivi sani e realistici (Gazzillo et al., 2021, 2022; Weiss, 1994). Il piano è composto dagli obiettivi che il paziente desidera perseguire, dalle credenze che ne ostacolano il raggiungimento, dai traumi da cui originano tali credenze, dai test ovvero i modi con cui la persona cerca la disconferma di tali credenze e infine dagli insight che potrebbe voler acquisire per padroneggiare meglio il proprio funzionamento e comprendersi in modo più completo e benevolo. Il concetto di piano è una chiara espressione del funzionamento inconscio superiore, così come lo è il concetto di “test”.
Per test intendiamo (Gazzillo et al, 2019; Weiss 1990) le comunicazioni, gli atteggiamenti e i comportamenti che il paziente elabora inconsciamente al fine di mettere alla prova le proprie credenze patogene all’interno della relazione con il terapeuta. Difatti quello che il paziente cerca inconsciamente tramite i test, non è una comprensione, ma un’esperienza emotiva correttiva (Alexander & French, 1946).
In terapia operano in contrasto tra loro quindi due forze, da una parte abbiamo le credenze patogene che, generate al fine di farci provare un senso di sicurezza, trovano, attraverso bias confirmatori e di sicurezza, il modo di confermarsi, mentre dall’altra parte abbiamo il forte desiderio di vivere esperienze a disconferma di tali credenze al fine di perseguire obiettivi evoluzionisticamente fondati e sani.
Il modo principale con cui il paziente cerca di mettere alla prova le credenze patogene è testarle all’interno delle relazioni significative, relazione terapeutica compresa. Il paziente attraverso i test può misurare il livello di sicurezza all’interno di una relazione. Oppure è possibile intendere i test come modi di padroneggiare l’esperienza traumatica riproponendola nella relazione nella speranza che essa abbia un “lieto fine”. Se il clinico riesce a rispondere in modo positivo ai test quello che può accadere è che il paziente abbassi il suo arousal emotivo, sia meno depresso e si senta più sicuro nella relazione, portando magari nuovo materiale in terapia, oppure divenga più capace di elaborare il materiale su cui si sta lavorando assieme al clinico. Ma non solo, può avvenire anche che il paziente si senta (positivamente) spinto a testare maggiormente il terapeuta.
In CMT vengono considerate due tipi di strategie con cui il paziente può eseguire l’attività di testing: test di transfert e test di capovolgimento da passivo in attivo. Nel primo caso il terapeuta è visto e percepito come il caregiver traumatizzante e il paziente assume la posizione del Sé traumatizzato con la speranza che la risposta del terapeuta sia diversa da quella del caregiver traumatizzante. Nei test di capovolgimento da passivo in attivo invece è il paziente ad indossare i panni del caregiver potenzialmente traumatizzante, con la speranza che il terapeuta possa fungere da modello di ruolo per il paziente.
Infine esiste anche un’altra tipologia di test definiti di tipo osservativo.
In seduta l’attività di testing, specie nei primi colloqui, per un paziente è collegata a forti ansie in quanto non vi è alcuna garanzia che il terapeuta sia in grado di rispondere in modo giusto, disconfermando la credenza messa alla prova, anzi potrebbe addirittura esporsi ad una nuova ri-traumatizzazione. Pertanto è possibile che i pazienti inconsciamente possano fare delle comunicazioni di coaching al terapeuta. Tale attività di coaching, che può manifestarsi in modo diretto o indiretto, consiste in una serie di comunicazioni o informazioni formulate dal paziente che sono utili sia a guidare il terapeuta su come possono rispondere al test in modo pro-plan (in linea con il loro piano inconscio), sia a fornire indizi rispetto gli obiettivi del loro piano o ai traumi che hanno bisogno di elaborare. Inoltre, l’attività di coaching del paziente potrebbe anche fornire preziose indicazioni rispetto il giusto atteggiamento che il terapeuta può mettere in atto (Bugas & Silberschatz, 2000; Curtis, Silberschatz, Sampson, & Weiss, 1994; O’Connor, Edelstein, Berry, & Weiss, 1994).
Rispetto all’atteggiamento del clinico, diversi studi hanno confermato quanto possa essere fondamentale che il terapeuta assuma il giusto atteggiamento in terapia al fine di favorire un’esperienza emotiva correttiva in grado di disconfermare cioè le credenze patogene ed esser consono al piano inconscio con cui arriva in terapia (Shilkret, 2008). Vedremo come, nel lavoro su le problematiche sessuali, questi aspetti possano rivelarsi fondamentali.
Facciamo adesso un esempio per illustrare come questi concetti possano esserci utili per comprendere cosa si nasconda dietro la sintomatologia sessuale e le difficoltà nel trattarla in terapia.
Consideriamo, per iniziare, il caso del nostro paziente con eiaculazione precoce (EP), che chiameremo Sergio. Durante l’infanzia, Sergio ha vissuto in una famiglia in cui i genitori erano costantemente sofferenti e oberati dagli impegni e dalle difficoltà quotidiane. Sia la madre sia il padre si dividevano tra il lavoro e l’assistenza ai genitori anziani, molto impegnativi e bisognosi di cure. Crescendo in questo contesto, Sergio ha imparato che le sue esigenze, anche le più semplici e basilari, erano un peso eccessivo, difficili da soddisfare e spesso meno importanti o urgenti di altre incombenze familiari.
Per preservare il rapporto con i genitori e garantire un clima familiare il più sereno possibile, Sergio ha sviluppato la credenza patogena per cui se avesse espresso le sue emozioni e parlato dei suoi problemi allora gli altri si sarebbero sentiti appesantiti e sopraffatti (senso di colpa da burdening).
Inoltre, Sergio è cresciuto in un contesto familiare in cui l’unità e la coesione erano valori fondamentali. La famiglia viveva in una grande casa, dove le serrature delle porte non erano mai chiuse a chiave, simbolo di un totale invischiamento. Tutti i membri della famiglia erano coinvolti nella coltivazione dei terreni circostanti la loro casa. Ogni tentativo di Sergio, fin da piccolo, di elevarsi attraverso gli studi e di proiettarsi verso obiettivi personali diversi da quelli familiari veniva criticato, sminuito o deriso. Questo ha fatto sì che Sergio sviluppasse l’idea che se avesse perseguito attività a progetti di vita differenti da quelli dei suoi familiari, allora questi si sarebbero sentiti offesi e traditi (Senso di colpa da separazione e slealtà).
Anche quando Sergio si è laureato in ingegneria, un traguardo significativo, il padre ha mostrato delusione e amarezza poiché il figlio non avrebbe continuato l’attività di famiglia. Sergio vive ancora con i familiari in uno dei piani della casa di famiglia, un contesto che continua a rinforzare le sue credenze patogene e le difficoltà nel perseguire una vita autonoma e indipendente.
Il paziente, giunto in terapia, racconta di soffrire di eiaculazione precoce (EP) da circa un anno. Questo problema lo mette in forte difficoltà con la moglie, la quale lamenta di sentirsi insoddisfatta e trascurata sessualmente, ma anche di non ricevere sufficiente supporto nella gestione della casa e del loro primogenito di pochi anni.
Da circa un anno, Sergio passa molto tempo fuori casa, in un’altra città, a causa di un contratto professionale molto importante che sancisce un prestigio lavorativo raggiunto dopo anni di fatica e ricerca. Tuttavia, al suo rientro a casa, si trova spesso di fronte a una moglie che si lamenta della sua giornata, soprattutto del fatto che è sola ad affrontare le incombenze quotidiane mentre lui è fuori e si dedica alla sua carriera e a perseguire le sue ambizioni. Sia le comunicazioni sia l’atteggiamento della moglie vengono vissute da Sergio come una conferma sia della sua credenza da burdening, ovvero che i suoi bisogni sono un peso per l’altro, sia della credenza da separazione/slealtà per cui se lui segue le sue inclinazioni, si allontana fisicamente o si differenzia dall’altro, questi ne soffre.
La sera, quando finalmente si ritrovano in camera da letto, la moglie fa delle avance al marito. Sergio, stremato e già intrappolato in un circolo vizioso di ansia legato agli episodi precedenti, cerca di mettere da parte le sue preoccupazioni e stanchezze, e di assecondare la richiesta della moglie. Tuttavia, puntualmente, la sua eiaculazione avviene in modo anticipato, impedendo qualsiasi momento di piacere condiviso. La moglie reagisce accusandolo di pensare solo a sé stesso e al suo piacere, sottolineando quanto si senta sola negli impegni quotidiani e dicendo di non farcela più. La scontentezza e il rimprovero della moglie confermano le sue credenze di essere un peso e deludente se manifesta le proprie fragilità o funziona diversamente da come l’altro si aspetta (circolo vizioso relazionale referee)
Da un punto di vista di diagnosi della problematica sessuale è possibile parlare di un episodio definito secondario: Sergio, infatti, riporta che in passato la sua eiaculazione non era così precoce e che, pur non essendo mai stato molto abile nel gestire il proprio piacere, è sempre riuscito a vivere la sessualità con un buon livello di appagamento, sia per sé sia per la partner. Il sintomo, tuttavia, è presente da oltre sei mesi e ogni tentativo di risolverlo si è rivelato infruttuoso.
Una lettura in chiave Control-Mastery Theory ci permette di comprendere invece il senso del sintomo sessuale e il suo rapporto con le dinamiche familiari del paziente. Sergio non riesce a dedicarsi a qualcosa di importante ed appagante per sé stesso senza sentirsi in colpa e contemporaneamente non riesce a concentrarsi sul proprio piacere fallendo di conseguenza nella capacità di gestirlo. Non riesce, proprio in virtù delle sue credenze patogene ad esprimere le sue difficoltà, a dire al partner ciò di cui ha bisogno o che non vuole. Si sforza di conformarsi ed essere ciò che l’altro chiede ma il prezzo di questo sforzo è la perdita di contatto con ciò che prova davvero, con sé stesso, le sue sensazioni e il suo piacere. In ottica sessuologica sarebbe necessaria un’attività agentiva, un gioco di “freno e acceleratore” che il modello del doppio controllo ci aiuta a comprendere molto bene. Ma per i significati e le regole implicite che Sergio ha sviluppato dalle sue esperienze di vita (credenze patogene) “Se mi focalizzo sul mio piacere” diventa “sono egoista e faccio soffrire l’altro” c’è bisogno di qualcosa di diverso.
Il terapeuta, per indagare il funzionamento del paziente, nei primi incontri gli assegna un compito da svolgere a casa: un esercizio di focalizzazione sulla propria eccitazione. L’esercizio consiste nel procurarsi un’erezione (in modo non specificato dal terapeuta), attendere che questa si attenui quasi del tutto e poi riprenderla, ripetendo il ciclo per tre volte. Il terapeuta prescrive di eseguire l’esercizio almeno due volte distinte prima della seduta successiva, senza fornire ulteriori istruzioni.
Allo stesso tempo, va sottolineato che l’homework ha lo scopo di rispondere positivamente e in modo pro-plan alla richiesta implicita del paziente di essere assistito nella sua difficoltà a occuparsi di sé stesso, disconfermando implicitamente la credenza di senso di colpa da burdening che ha il paziente.
Nella seduta successiva il paziente non parla inizialmente dell’esercizio svolto, come spesso avviene nelle terapie sessuali, ma inizia portando al terapeuta una richiesta, quella di poter variare, in base ai vari problemi che possono presentarsi a lavoro, giorno e ora degli incontri. Il terapeuta accetta di buon grado. Solo dopo il paziente parla spontaneamente del suo esercizio descrivendo il tipo di fantasia che ha utilizzato per raggiungere l’erezione, che è in sintesi quella di una donna che si eccita nel dargli piacere sotto varie forme. In CMT le fantasie sessuali sono considerate una funzione della mente che ha lo scopo di raffigurare una situazione in cui la credenza patogena è disconfermata (Bader, 2018). In questo caso il paziente, attraverso la fantasia, stava creando uno scenario esperienziale emotivamente correttivo, ovvero una situazione in cui i suoi bisogni e il suo piacere non solo non erano un peso per l’altro, ma addirittura una cosa eccitante. Saper cogliere questo ha permesso al terapeuta di impostare il trend del lavoro sulla problematica sessuale e contemporaneamente assumere il giusto atteggiamento durante la terapia.
La formulazione del piano, avvenuta nelle prime sedute, ha permesso al terapeuta di affiancare ad un lavoro di homework e psicoeducazione un’impostazione della relazione terapeutica utile a individuare e superare i test del paziente disconfermando così le credenze patogene che impedivano lo sviluppo della sua sexual agency. Detto in un altro modo ancora Sergio apre la seduta “disattendendo” il ruolo di “bravo e diligente paziente”, non parla degli homework e anzi chiede al terapeuta se può modificare tempi e orari delle sedute in base alle proprie esigenze lavorative (test di transfert per ribellione sul burdening). Solo dopo che il paziente supera il test e gli fa sentire cosi che c’è spazio per le sue esigenze, che le sue richieste non sono un problema, solo allora Sergio inizierà a parlare della problematica sessuale.
Nel corso della terapia l’assegnazione delle mansioni ci è stata, ma non ha occupato un ruolo centrale nel lavoro con il paziente. Spesso, invece, gli homework divenivano scenari di testing e di coaching . Questi per essere davvero pro-plan, deve mettere il protocollo da parte per dedicarsi invece alla disconferma della/e credenze patogene che ostacolavano l’accesso al piacere, alle proprie sensazioni, a sé stesso. È importante a questo punto sottolineare che, se il terapeuta avesse messo in atto solo il protocollo comportamentale per l’EP, avrebbe rischiato di non fare sentire importanti queste necessità del paziente (conferma del burdening) e, chiedendo di aderire a un programma già impostato, gli avrebbe impedito di trovare la sua strada per lo sviluppo agentivo (conferma della separazione e slealtà).
Per chiarire meglio questo aspetto importante facciamo un esempio: il paziente, discutendo dell’esercizio di start-stop che aveva svolto a casa, racconta di aver percepito il punto di inevitabilità orgasmica, ma che, rispetto ad altre volte in cui si era esercitato, in quel momento si sentiva così bene che aveva deciso di non fermarsi e di proseguire raggiungendo il piacere e affermando di essersi sentito molto soddisfatto nel farlo. In quella circostanza il terapeuta ha validato il comportamento del paziente, disconfermando così una sua credenza patogena (da separazione e slealtà) e sostenendo l’idea che non fosse un problema se Sergio seguiva una sua necessità trascurando le indicazioni del terapeuta. Questo tipo di interventi ha consentito al paziente di sentirsi progressivamente più sicuro nella relazione e contemporaneamente di mettere al centro dell’esperienza terapeutica le sue sensazioni, le sue necessita e quindi il suo piacere, che è divenuto progressivamente più abile a percepire e gestire. Questo ha portato a un miglioramento della sintomatologia sessuale e a una maggiore capacità di comunicare le proprie esigenze nella relazione di coppia riuscendo così a portare in modo sano nella relazione dei momenti da dedicare alla gestione della propria eccitazione. Con il progredire della terapia, Sergio ha iniziato a comunicare più apertamente con la moglie le sue difficoltà e i suoi bisogni, cosa che ha favorito una maggiore comprensione reciproca e a una riduzione delle tensioni nella coppia.
Lavorare in ottica CMT con Sergio ha permesso quindi di strutturare un intervento diffuso e complesso che ha consentito al paziente non solo di lavorare sul suo riflesso eiaculatorio (e quindi sul sintomo), ma anche di intervenire sull’ambiente e sulle relazioni circostanti andando a determinare in modo proattivo tutte le circostanze favorevoli di cui si necessita per poter vivere in modo sano e sicuro la propria sessualità, come il modello di Basson ci suggerisce.
Un altro esempio di come poter lavorare in chiave CMT con una problematica sessuale può essere rappresentato nel caso clinico di Roberta, dove la problematica sessuale è emersa proprio a seguito di un lavoro pro-plan in terapia. Questo avviene perché i pazienti, quando giungono in terapia, sono fortemente motivati a disconfermare le credenze patogene che li ostacolano nella realizzazione dei loro obiettivi e tra gli obiettivi sani è possibile che emerga anche la volontà di vivere una vita sessuale più sana e appagante. Come vedremo, le credenze patogene possono costituire un limite in diversi aspetti della vita in quanto impediscono alla persona di mettere in atto comportamenti agentivi, sia negli aspetti interpersonali più in generale, ma anche quelli più strettamente legati alla dimensione sessuale.
Roberta è una giovane ragazza laureata a pieni voti in veterinaria che è venuta a vivere in un’altra città al fine di inseguire il suo sogno di lavorare in un’importante contesto clinico e realizzarsi professionalmente.
Nonostante un’apparenza gradevole e curata, Roberta è molto insicura del proprio aspetto fisico tanto da praticare importanti restrizioni alimentari che si alternano alle abbuffate e a condotte di compensazione sotto forma di allenamento intensivo.
Anche a lavoro fa fatica a trovare un suo equilibrio, tormentata dalla possibilità d’errore teme di mettere in difficoltà i colleghi, e di conseguenza vive ogni momento del lavoro con estrema tensione. Inoltre, Roberta vive sentendosi sempre osservata temendo di fare un passo falso da un momento all’altro e, a seguito del suo “controllarsi”, ha difficoltà nel costruire relazioni amicali con i colleghi con cui resta sempre in rapporti formali. Questa cosa si rispecchia anche nel modo in cui vive la sensazione di “fame”. Roberta teme di dover fare i conti con il suo appetito, in quanto visto unicamente come qualcosa che, se venisse assecondato, rappresenterebbe una perdita di controllo e un insuccesso con conseguenze disastrose. Ogni volta che si trova a gustare qualcosa Roberta sprofonda in uno stato di allarme e accade che la percezione di sé stessa e del proprio corpo si modifichi in modo esasperato nella sua mente, come se fosse “enorme e con un faro puntato sopra e che tutti sappiano quanto ho mangiato”. Ma cosa c’è dietro questa sensazione di perdita di controllo e di fallimento? È evidente che ogni cosa legata al piacere e alla soddisfazione personale, che potrebbe costituire la realizzazione di uno scopo sano e realistico, sembra essere legata in lei a un senso di pericolo che Roberta cerca di controllore. In ottica CMT è importante cercare di comprendere dove il paziente possa aver sviluppato questa mappa del mondo.
La situazione familiare della paziente è quella di una famiglia modesta e molto unita dove lei è cresciuta imparando a badare a sé stessa molto presto per via dei genitori sempre impegnati a lavorare nei campi di famiglia. La madre di Roberta era una persona con forte spirito di sacrifico che ha dedicato tutta la vita al lavoro, mettendo da parte ogni aspetto di svago per garantire alla figlia di potersi realizzare nello studio e nel lavoro. Anche il padre, uomo molto riservato e silenzioso, rincasava ogni sera talmente stremato da crollare sul divano. Roberta ricorda un episodio in cui il padre subì un’importante infortunio al lavoro che lo costrinse per mesi a letto, sottoposto a delle medicazioni quotidiane che gli procuravano un dolore così intenso tale da riempire ogni volta tutta la casa di urla laceranti alle quali Roberta, invano, provava a sottrarsi in cameretta con la testa sotto il cuscino.
Roberta è cresciuta con l’idea che ogni piccola cosa che ricevesse nella vita fosse il frutto di una grande sofferenza e sacrificio dei genitori e per tale motivo ha sempre pensato che le sue necessità e difficoltà comportassero un sacrificio per l’altro. Di conseguenza ha sviluppato la credenza che, per ogni cosa che lei sarebbe riuscita ad ottenere nella vita, di conseguenza qualcuno avrebbe sofferto tremendamente. Questo comportava che ogni conquista non venisse mai vissuta in modo appagante e soddisfacente, ma come qualcosa da affiancare al sacrificio e alla sofferenza, come per bilanciare il tutto. Per Roberta il dover essere “impeccabile” fino a raggiungere una dimensione sacrificale e priva di piacere era un vero e proprio atto di autopunitivo.
Lavorando in terapia, dopo qualche mese, la paziente ha compreso che dietro quelle abbuffate c’era un tentativo di concedersi un po’ di piacere al fuori dagli impegni, una vera e propria ribellione che metteva in atto rispetto il senso di colpa da burdening misto al senso di colpa del sopravvissuto che provava. Per Roberta il fatto di stare a realizzare il suo progetto di vita equivaleva all’aver edificato la sua “casa” sulla sofferenza dei propri genitori, i quali erano rimasti a condurre una vita umile e poco appagante nella provincia. Allo stesso tempo per la paziente concedersi piacere e lasciarsi andare, anche con il cibo che apprezzava, equivaleva a una perdita di controllo imperdonabile che doveva essere “punita” prima trasformandola in una spiacevole abbuffata, per poi transitare verso una pesante autocritica e svalutazione che si placava solo con la compensazione di uno estenuante allenamento. Insomma, ogni spazio di piacere era seguito da una vera e propria condotta di autopunizione.
Durante i primi mesi di terapia Roberta inizia a usare sempre di più il suo spazio di terapia per condividere argomenti per lei piacevoli, e lo fa testando il terapeuta. Ad esempio, dopo aver parlato per un’intera seduta di quanto amasse i cani e il rapportarsi con loro si scusa con il terapeuta per “averlo ammorbato”. La risposta del terapeuta è invece incoraggiante e le dice di essersi molto divertito nell’ascoltarla.
I test di Roberta in terapia erano orientati a verificare la credenza che se avesse vissuto con piacere delle esperienze e le avesse condivise, qualcuno ne avrebbe sofferto (credenza patogena da burdening mista al sopravvissuto). Nello specifico la paziente parlava per intere sedute di quanto amasse lavorare con gli animali e del piacere che provava nel risolvere problematiche cliniche. A questo il terapeuta rispondeva con atteggiamento interessato e supportivo, senza mai mostrarsi appesantito o infastidito dalla situazione, ma anzi divertito. Dopo alcuni mesi di terapia la paziente ha iniziato a dedicarsi a diversi nuovi interessi e a partecipare a delle attività ricreative e si socialità proposte dai colleghi e dagli amici della palestra. Il suo allenamento aveva smesso di essere in parte compensativo e le attività venivano praticate con lo scopo di divertirsi. Gli episodi di abbuffata erano diminuiti, ma persisteva l’insoddisfazione corporea e per il proprio aspetto fisico.
In questo periodo della sua vita Roberta conosce un ragazzo e in seduta inizia per la prima volta a parlare delle sue difficoltà sessuali. Emerge che il sesso per lei era stato sempre un problema e, solo dopo aver compreso di potere lavorare sulle sue credenze che la condannavano rispetto la possibilità di ricercare piacere personale nella vita, racconta per la prima vota del suo sintomo di dolore da penetrazione. La dinamica dell’episodio riportato era ascrivibile a un sintomo di vaginismo. Questo problema le aveva da sempre reso il sesso doloroso, tanto da impedirle spesso di ricevere una penetrazione e, con il passare del tempo, la paziente aveva messo da parte la pratica del sesso. Nella sua storia sessuale, Roberta ricorda che, da adolescente, quando aveva iniziato a nutrire interesse verso i coetanei del sesso opposto, aveva domandato alla madre come fosse il sesso: “È una cosa dolorosissima!” aveva risposto la madre con il volto contrito e spaventato. Questa risposta andava collocata in un contesto più ampio: la madre e il padre di Roberta vivevano ogni cosa nel dolore e nel sacrificio e il piacere non poteva avere spazio. Quindi ciò che era avvenuto per Roberta era che, in un momento significativo del suo sviluppo sessuale, la credenza patogena “se mi realizzo e vivo esperienze piacevoli ed appaganti qualcuno soffrirà e si sentirà sminuito” era divenuta la credenza che avrebbe regolato il suo approccio alla sessualità e alla sua scoperta. Da quel momento Roberta ha vissuto sempre divisa tra la curiosità verso il piacere e la credenza patogena che qualcuno avrebbe sofferto per questo, fino ad arrivare ad aderire quasi del tutto all’idea che ogni suo tentativo di avvicinarsi e comprendere il piacere sarebbe stato caratterizzato dal dolore fisico, così come avveniva per la madre.
Abbiamo visto come le credenze in generale fungano da bussole interne in grado di orientare il nostro modo muoverci nel mondo, nello specifico questa credenza patogena in Roberta era stata in grado di condizionare le sue esperienze durante lo sviluppo sessuale andando a definire il rapporto con il proprio corpo e il proprio piacere conferendo loro un’accezione del tutto negativa. La paziente aveva vissuto la propria spinta sana verso esperienze di auto-esplorazione e di sviluppo dell’autoconsapevolezza associandola a un senso di pericolo, sia di sofferenza fisica (pericolo interno) sia di sofferenza del genitore, che si sarebbe sentito svalorizzato e sminuito da una sua vita sessuale appagante (pericolo esterno). Questa associazione ha finito per influenzare la stessa percezione del suo corpo, che, concentrandosi sul dolore, ha sviluppato una risposta riflessa inibitoria e protettiva: una contrazione automatica e involontaria della muscolatura perivaginale, attivata sia durante i tentativi di esplorazione personale, sia durante i tentativi di penetrazione da parte di un partner. Inoltre, l’attività di questo meccanismo difensivo andava costituire un bias di conferma dell’idea che un atto sessuale penetrativo potesse essere solo doloroso e confermando anche l’idea che Roberta e il suo corpo non fossero “idonei” a vivere una sessualità piena ed appagante. Prima della terapia Roberta sembrava aver accantonato l’idea di poter avere una sessualità attiva e soddisfacente, fino a che, lavorando sulle sue credenze patogene, il suo “diritto al piacere” era prepotentemente riemerso.
Il lavoro del terapeuta, sia attraverso il superamento dei test sia tramite l’adozione di un atteggiamento che disconfermava la credenza da senso di colpa del sopravvissuto misto al burdening, aveva quindi progressivamente predisposto la paziente ad essere pronta a considerare risolvibile anche la sua difficoltà sessuale.
Un giorno Roberta iniziò la seduta esordendo con: “Dottore ma che ne lei pensa del sesso?” Il terapeuta rispose divertito, affermando che il sesso era una delle esperienze in grado di coinvolgere mente e corpo più piacevoli e interessanti che potesse fare, sostenendo l’idea che tutti quanti hanno diritto a viverla il più possibile e che lui stesso non perdeva occasione per godersela. La risposta sembrò molto convincente. Roberta iniziò allora a parlare della sua difficoltà, chiedendo se ci fosse un modo affinché anche lei potesse scoprire questo piacere. Era necessario aiutare la paziente a guardare la sua sessualità oltre quel limite che le credenze patogene costituivano. Il lavoro sul sintomo sessuale di Roberta fu su due livelli paralleli. Iniziò con l’assegnazione di compiti di auto-osservazione in cui le veniva chiesto di osservare le sue parti genitali e progressivamente esplorarle con l’auto-stimolazione. Progressivamente vennero introdotti anche degli esercizi di Kegel e applicati in diverse varianti.
Gli obiettivi nella Terapia Mansionale Integrata sono diversi e vanno dal permettere alla persona di sviluppare una conoscenza più realistica della propria anatomia alla capacità di assumere un controllo attivo sulla contrazione e sul rilassamento della muscolatura pelvica. Ad un altro livello, invece, Roberta aumentò l’intensità dalla sua attività di testing. Lo fece sia chiedendo più volte al terapeuta se il discutere di questo potesse creare in lui difficoltà o imbarazzo, ma anche chiedendo più volte di modificare gli appuntamenti a seguito di suoi impegni. Durante questa fase della terapia la paziente che aveva iniziato una frequentazione, spontaneamente portò quanto appreso negli esercizi all’interno di questa relazione con lo scopo di iniziare a scoprire un’esperienza di piacere condiviso. Nel fare questo Roberta chiedeva spesso al terapeuta più volte cosa pensasse di questa sua iniziativa. La modalità supportiva del terapeuta aiutò quindi la paziente a superare la credenza patogena che se avesse dato spazio al suo piacere l’altro non ne sarebbe stato affatto infastidito. Di queste esperienze di coppia la paziente riportò in terapia racconti in cui chiedeva al partner di focalizzarsi sui suoi bisogni e sul suo piacere e questo le permise per la prima volta di sentirsi sicura di sé nel portare le sue necessità nella relazione con qualcuno, senza temere che questo potesse sentirsi provato o infastidito da questo.
Conclusioni
Un paziente che ci racconta di come vive la sua sessualità ci sta raccontando molto di come egli vive e percepisce il mondo circostante e di come inconsciamente percepisce e regola le sue relazioni interpersonali (specie quelle intime). Perciò, rispondere a tale richiesta con un semplice “addestramento ad agire” rischia di essere riduttivo se non viene fatto tenendo in considerazione di tutta una serie di elementi fondamentali che sono necessari per aiutarlo a mettere in discussione le sue credenze patogene.
La determinazione di una agentività sessuale sana su un piano evolutivo necessita di esperienze emotive positive e soddisfacenti. Abituare corpo e mente a rispondere in modo funzionale implica che la mente debba essere in grado di abbandonarsi e per poterlo fare è necessario che la sua lettura del mondo e gli schemi che si è costruito gli garantiscano una sicurezza sufficiente.
Sembrerebbe che l’agentività sia coinvolta in due possibili condizioni in terapia, sia quando un individuo sta cercando di acquisire una specifica competenza e sia quando, in specifiche condizioni di vita, si richiede l’affinamento di tale competenza al fine di evolversi e specializzarsi e divenire più funzionale al fine di consentirgli di adattarsi e perseguire i propri obiettivi di vita.
Questa visione evolutiva ci suggerisce, quindi, che il problema sessuale può presentarsi sia quando un individuo sta definendo nella sua crescita una sua capacità agentiva con cui impara ad abbandonarsi e controllare il proprio piacere, sia quando uno evento nuovo lo porta a dover affinare una capacità specifica che gli occorre per vivere in modo sano la propria sessualità. In entrambi i casi c’è sempre una credenza patogena alla base che gli impedisce di mettere in atto il giusto comportamento agentivo.
Secondo la Control-Mastery Theory un paziente che inizia una terapia è portatore di un piano inconscio volto a disconfermare le credenze patogene che al perseguimento di obiettivi sani e realistici. Seguendo questa visione, quando un paziente porta una problematica sessuale in terapia è necessario andare oltre al concetto di deficit o disfunzione da colmare. È necessario leggere il problema sessuale cercando di comprendere in modo mirato cosa ci sta chiedendo il paziente e costruire un intervento adattato alle sue esigenze e difficoltà specifiche. Questo implica che in una visione di terapia integrata gli esercizi mansionali possono essere utilizzati, ma solo se si tiene conto della necessità del paziente di lavorare su uno specifico aspetto che non è il sintomo sessuale, bensì la credenza patogena che vi risiede dietro in quanto è la volontà del paziente di superarla la vera motivazione del percorso terapeutico. Accanirsi terapeuticamente in un trattamento integrato che pone al centro l’esecuzione delle mansioni rischierebbe di rivelarsi una scelta anti-plan. Uno dei rischi principali è quello di fornire una indicazione procedurale che non trova però uno spazio esecutivo, in quanto la percezione del mondo del paziente è delimitata da “confini” che non permettono di considerare fino in fondo il potenziale di sviluppo che offrono gli esercizi stessi. È possibile infatti che un paziente trovi più giovamento da ciò che accade nella relazione terapeutica che gli permette di disconfermare le sue credenze patogene e quindi di guardare oltre i limiti in cui si trovava. Se consideriamo questo aspetto, l’esecuzione delle mansioni può restare comunque un’ottima base per allenare corpo e mente in un’azione agentiva su un livello più esecutivo, ma sarà possibile anche notare che il paziente esprime una maggiore sicurezza e libertà nel lavoro terapeutico, che può portare, indipendentemente da qualsiasi tecnica, a uno sviluppo sessuale sano e proattivo.
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scarica il PDF dell’articolo: Modelli di risposta sessuale, sexual agency e credenze patogene. Un’ipotesi di intervento sulle problematiche sessuali in ottica Control Mastery Theory. (2025)